Più passa il tempo, più emergono evidenti le conseguenze del catastrofico voto del 4 marzo e di ciò che lo ha prodotto.
Non è questione di calendario (il tempo che serve per fare un Governo non é un parametro assoluto) ma di cedimento strutturale della fragile impalcatura civile e politica del Paese.
La desolante rappresentazione andata in scena in questi due mesi ci restituisce una commedia senza trama e senza senso, con improbabili aspiranti statisti che nella Prima Repubblica non avrebbero superato il vaglio per qualche incarico locale di seconda fila.
Ma ciò che più preoccupa – purtroppo non sembra la pubblica opinione, che appare ancora in larga parte ammaliata dai cosiddetti “vincitori” – è la distanza siderale che sta crescendo rispetto al resto dell’Europa e all’idea stessa della nostra appartenenza alla casa comune europea.
Il vero leader del partito più votato rilancia la suggestione del Referendum per l’uscita dell’Italia dalla moneta unica. E quello della coalizione più forte pone come priorità del suo eventuale Governo una battaglia “senza se e senza ma” per il ritorno al sovranismo nazionalista, come unica via per la difesa dei preminenti interessi della Nazione.
Nello stesso momento, proprio in questi giorni, il Presidente della Commissione Juncker prende spunto dal bicentenario della nascita di Karl Marx per rilanciare la prospettiva di una Europa fondata su un solido pilastro “sociale”.
Quella del democristiano Juncker non è certo una rivalutazione postuma del marxismo come teoria politica, ma la constatazione che senza una tensione prioritaria alla giustizia sociale l’Europa perde la sua anima e la plausibilità stessa del suo percorso.
Anzi, è la stessa democrazia rappresentativa che – senza una finalizzazione sociale – perde la sua legittimazione sostanziale e la sua dimensione comunitaria.
Riemerge uno dei tratti distintivi del pensiero politico cristiano sociale (da non confondere con lo spirito che sta prevalendo oggi nel “contenitore” PPE) e che ha connotato il vero salto di qualità attraverso il quale si sono superate le preesistenti visioni liberali della democrazia intesa solo come strumento di garanzia delle libertà formali degli individui.
Aldo Moro – del quale ricordiamo in questi giorni il quarantesimo anniversario dell’assassinio e che sempre di più ci appare come una fonte vitale di nuova ispirazione, proprio attorno alla questione della democrazia – scriveva che “Lo Stato è, nella sua essenza, società che si svolge nella storia, attuando il suo ideale di giustizia.”
Se alla parola “Stato” sostituiamo quella di “Unione Europea”, abbiamo la sintesi della nostra visione e della nostra vocazione europeista.
Si coglie, nelle parole di Juncker, la filigrana di un pensiero anche autocritico.
Non è stata sbagliata in via di principio la politica europea di difesa della moneta unica e della stabilità finanziaria: è stata drammaticamente “monca”.
Ad essa mancavano un presupposto ed insieme un obiettivo essenziali, quelli sociali, conseguenza di un deficit di visione e di respiro ideale ma anche della asimmetria tra strumenti economico finanziari e strumenti politici a disposizione dell’Unione.
Le finalità indicate nei Trattati ne sono una evidente dimostrazione.
Il punto fondamentale, tuttavia, è che ormai “sovranismo” e “dimensione sociale della democrazia” assieme non stanno. Costituiscono un ossimoro.
Gli Stati Nazionali non possono più essere l’ambito prevalente nel quale la democrazia recupera, incorpora e promuove la giustizia sociale.
Non è solo questione di sovranità monetaria irreversibilmente ceduta.
Le insidie alla giustizia sociale – nella sua accezione più esigente e piena – sono ormai ampiamente radicate in una dimensione globale e non più solo nazionale.
E non più solamente riferibili ai diminuiti margini di finanza pubblica statale per il sostegno al welfare tradizionale.
Pensiamo alla rivoluzione tecnologica e alle nuove frontiere dell’Intelligenza artificiale; alla concentrazione dei poteri finanziari; alla forte disparità dei diritti sociali tra le grandi aree geopolitiche in competizione e alle sue conseguenze sul lavoro.
Oppure pensiamo ai processi demografici e ai loro effetti sull’equilibrio intergenerazionale.
O ancora – posto che non esiste giustizia sociale senza cultura della condivisione e della solidarietà – alla dimensione sempre più globale degli strumenti di formazione delle opinioni, tutti oggi inesorabilmente orientati al primato dei diritti individualistici rispetto a quelli comunitari e collettivi.
L’Europa deve recuperare la sua vocazione ad una democrazia dalla forte valenza di giustizia sociale. Ma dobbiamo sapere che questo obiettivo non è perseguibile oggi senza una Europa più forte e anche politicamente unita. Esattamente l’opposto di ciò che il sovranismo nazionalista propugna col pretesto accattivante ma illusorio della difesa dei più deboli.
Ecco uno dei terreni fertili per ricostruire una presenza della nostra cultura politica, oggi spiazzata e dispersa, non senza nostre gravi responsabilità.
Ora siamo in netta minoranza e in drammatica controtendenza: ma sappiamo che così è stato spesso nella vicenda storica dei cattolici democratici.
I nostri Padri non si sono rassegnati.
Non dobbiamo farlo neppure noi. Dobbiamo preparare i tempi nuovi, con coraggio e umiltà.
È questo credo il senso culturale, civile e politico di una possibile, necessaria Rete Bianca che guardi oltre le desolanti secche sulle quali si sta incagliando in questa fase il Paese.