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Camera e Senato si occupano in questi giorni di eleggere i nuovi loro Presidenti e le forze politiche, dopo il voto, provano a formare un nuovo Governo. La vita continua, naturalmente. Guai se così non fosse. Vedremo come si riuscirà a mettere assieme il doveroso e giusto appello di Mattarella alla responsabilità verso il Paese con l’altrettanto sacrosanto dovere di chi ha vinto di non scaricare a priori su chi ha perso il problema di trovare i numeri per governare. Chi ha vinto ha demonizzato il Governo attuale e le forze politiche del centro sinistra che lo sostenevano, promettendo tutto e il contrario di tutto, pur di vincere: la Flat Tax al 15 per cento; il reddito di cittadinanza per tutti; l’immediato rimpatrio di seicentomila stranieri, per citare solo le promesse pare più elettoralmente indovinate. La larga maggioranza degli italiani ci ha creduto; convinta o meno, poco importa. Ora tocca a chi ha vinto presentare proposte dettagliate, sostenibili e concrete per corrispondere a queste promesse. Chi ha perso non deve scomodare suggestioni “aventiniane”, politicamente e istituzionalmente bizzarre. Deve mettere semplicemente chi ha vinto in condizione di avviare la Legislatura e di dimostrare come realizza queste “mirabilia”., se ne è capace. Il tempo è galantuomo.Ma il problema non è, purtroppo, solo questo. Il problema è piuttosto quello della “democrazia” e di come essa di alimenta con la rappresentanza politica e la partecipazione consapevole e responsabile dei cittadini.Tema molto più essenziale di chi occupa pro tempore le stanze del potere. Mi hanno colpito, da questo punto di vista, tre fatti accaduti in questi ultimi giorni.Il primo fatto. Davide Casaleggio, gran patron del software tecnologico e ideale del M5S dopo la scomparsa del padre, ha dichiarato che ormai tutti i partiti sono moribondi e che l’unico futuro della democrazia è nella Rete. Solo attraverso la Rete il singolo individuo -liberato dagli orpelli dei vincoli comunitari e dai riti consumati della democrazia rappresentativa – può esigere direttamente i suoi diritti di cittadino. Il secondo fatto. Mezzo mondo ha scoperto in questi giorni che chi possiede le informazioni personali di milioni di cittadini attraverso Facebook e gli altri social media è in grado di utilizzarle per finalità non sempre trasparenti e che ciò potrebbe condizionare non solamente la propensione ad acquistare singoli prodotti o servizi ma anche quella a specifiche proposte elettorali. Si tratta di una questione non certo inedita. Da tempo si discute su questi aspetti connessi alla invasivita’ delle nuove tecnologie -di comunicazione e non solo, per la verità – e sulla necessità di solidi presidi culturali per evitare di esserne dipendenti. Non a caso, detto per inciso, la Provincia Autonoma di Trento, nel 2010, aveva promosso la Fondazione Ahref – poi purtroppo abbandonata -finalizzata proprio a studiare questi fenomeni.In ogni caso, le dimensioni e la portata dei rischi democratici emersi in questi giorni sono dirompenti e preoccupanti.Terzo fatto. La ricorrenza del quarantesimo anniversario del suo rapimento e dell’eccidio della scorta, ha riproposto in questi giorni la figura ed il pensiero di Aldo Moro. Proprio sul suo concetto di “democrazia” occorrerebbe riflettere in questi tempi, con attenzione e profondità nuove. Per Moro la democrazia non era semplice esercizio di procedure o di regole, tradizionali o nuove, dirette o indirette che fossero. “Lo Stato -scriveva fin dal 1943 – è, nella sua essenza, il divenire della società nella storia, secondo il suo ideale di giustizia”. Non c’è vera democrazia senza finalizzazione sociale e senza dimensione comunitaria. Essa non è un fatto individualistico: è invece il terreno fertile sul quale si armonizzano i diritti del singolo con quelli del bene comune. È il luogo nel quale si realizza la dimensione del “personalismo comunitario”. Non ho ricette definitive per comporre un ragionamento di futuro attorno a questi tre fatti. Avverto tuttavia che questi problemi relativi alla “democrazia” sono ormai ineludibili. E, forse, non sono estranei neppure alla riflessione che dobbiamo fare sul recupero di “carisma” del nostro progetto autonomistico.