TRENTO La fragilità delle due grandi tradizioni politiche europee — i socialdemocratici e i popolari, «sempre più schiacciati a destra» — e i colpi impetuosi di un nazionalismo di nuovo conio sono gli ennesimi sintomi di una crisi democratica e politica profonda. La minaccia riguarda anche il Trentino, la cui Autonomia attraversa una fase di debolezza, che «potrebbe ritrovarsi nella condizione di subire a nord le pressioni del trentenne Kurz e a sud quelle dell’ultraottantenne Berlusconi». La risposta — secondo Lorenzo Dellai, deputato di Democrazia solidale ed ex presidente della Provincia — va costruita sul doppio binario politico-istituzionale, «rigenerando una coalizione di centrosinistra autonomista che deve tornare a rappresentare un’anomalia» e «proponendo la nostra Comunità autonoma come modello contro il nazionalismo e la crisi democratica». Dellai disegna una road map di teoria e prassi per il 2018 indicando anche un metodo per la delicata scadenza elettorale provinciale: «Sottoporre il presidente uscente Rossi a primarie è senza senso. La coalizione decida in tempi rapidi se vuole la continuità o il cambiamento».
Onorevole Dellai, l’Upt ha deliberato il patto con il Pd che vi proietta all’anno elettorale. Tattica contingente in chiave anti-Patt o cos’altro?
«Il fatto che i due partiti storici del centrosinistra decidano di stabilire un patto di iniziativa comune non va letto come il tentativo di mettere in difficoltà altri attori della coalizione né tantomeno come un esercizio tattico. Piuttosto è lo sforzo di recuperare una visione di prospettiva della politica e di rigenerare una coalizione che non può pensare di procedere per inerzia o per debolezza di alternative, un approccio altezzoso che la mobilità dell’elettorato sconsiglia. Certo poi questo passaggio va interpretato».
Come?
«L’Upt deve aprire e chiudere rapidamente la fase di costituzione del nuovo soggetto politico che recuperi lo spirito inclusivo della Margherita — non la formula né il nome che non è più spendibile — e la rappresentanza di un’ampia area che storicamente ha fatto riferimento alla Dc e alla Margherita. Prima della campagna elettorale delle elezioni politiche questo passaggio deve essere compiuto».
Quali sono le ragioni a monte che generano questo duplice percorso?
«Quando rifletto anche criticamente sulla coalizione non è per disfattismo né un appunto a chi interpreta oggi la coalizione. Gli scenari sono cambiati o stanno cambiando e non possiamo cavarcela rivendicando la buona amministrazione. Il punto fondamentale è la difficoltà dei cittadini ad identificarsi in una visione di futuro. È una fase storica che evidenzia aspetti problematici e inquietanti sui piani istituzionale e politico, ma altresì sfide positive».
Sul fronte istituzionale la crisi della democrazia non sembra trovare valide risposte: a destra ha generato il nazionalismo, a sinistra un’impasse.
«C’è una crisi profonda degli Stati nazionali che avevano garantito pace e sicurezza nella seconda metà del Novecento e, attraverso la democrazia rappresentativa, l’inclusione sociale. Il patto democratico si è sfaldato, gli Stati nazionali sono stati erosi nella loro sovranità dai processi globali e da poteri non riconoscibili mentre i cittadini si sono disaffezionati».
Quale ricetta allora?
«Gli Stati nazionali devono cedere sovranità verso l’Unione europea, l’unica che può gestire i processi transnazionali e globali, e verso i territori. La nostra Autonomia è il punto di partenza, dobbiamo riproporre il nostro modello di Comunità autonome di Trento e Bolzano per uscire dal tunnel politico-istituzionale in cui si è cacciata tutta l’Europa. È a questo livello che i cittadini possono ritrovare identificazione e appartenenza».
Secondo fronte: a livello politico il processo di disgregazione dei partiti e delle culture prosegue e la bussola dell’elettorato pare essere la paura.
«L’esperienza consolidata del centrosinistra autonomista può essere l’occasione per riaffermare un laboratorio di pensiero politico al fine di superare la crisi delle due grandi famiglie politiche europee: quella socialdemocratica e quella popolare. I primi non riescono più a trasmettere l’idea di compromesso tra capitalismo, giustizia e democrazia e hanno perso i tradizionali settori sociali di consenso; i secondi stanno cercando di collocarsi sempre più a destra per contenere le spinte dell’elettorato, ma così facendo hanno generato solo nuova domanda di destra. Una volta le Democrazie cristiane europee assorbivano le pulsioni a destra senza negoziare i grandi valori. Ma oggi la traccia del pensiero cristiano-sociale nel popolarismo è diventata impercettibile».
Dunque?
«Il centrosinistra autonomista è un’esperienza del tutto peculiare, sconosciuta al piano nazionale, antidoto alla frammentazione e alla presunzione di autosufficienza. Se recuperiamo il valore delle tradizioni socialdemocratiche e popolari, declinandole in modo innovativo, e riavviamo il laboratorio istituzionale possiamo tornare ad essere l’anomalia che eravamo dando risposte a quei cittadini che si affidano a soluzioni post-democratiche o populiste».
L’Autonomia non gode, però, di grande salute. E le elezioni in Austria con la vittoria del giovane leader popolare Kurz rischiano di mettere sotto stress il Brennero.
«L’Autonomia va riscoperta e rilanciata come via d’uscita rispetto al rigurgito nazionalista, è una grandissima opportunità. Il Terzo statuto è il luogo adatto per immaginare questo cambiamento. Da nord le spinte del nuovo governo austriaco e da sud il possibile successo del centrodestra, che noi ostacoleremo, sono un’insidia, ma dobbiamo farci trovare pronti al termine di questa stagione. Occorrono motivazioni forti, è la mission del centrosinistra autonomista».
A marzo si celebreranno quasi sicuramente le politiche. Se passa il Rosatellum bis anche al Senato, la sua area politica è più orientata a formare una lista autonoma di centro o un listone con il Pd?
«Intanto ho votato il Rosatellum bis con molte perplessità anche per lo sbilanciamento che presenta sulla quota proporzionale. Occorre comunque interpretare la norma. Nel momento in cui il Pd propone una legge coalizionale non può reiterare l’orientamento verso la vocazione maggioritaria. Berlusconi mi pare più avanti, sta cercando di mettere insieme un centrodestra largo che va da Casapound ai centristi. Ora, o il Pd propone una lista di coalizione con tutto il centrosinistra — che non può dunque chiamarsi Pd — o lavora per allestire una coalizione. Finora si è mosso in modo sinuoso perché ha problemi a sinistra e insegue Alfano al centro. Certo, sarebbe bislacco se due o tre coalizioni si presentassero rivendicando la discendenza con l’Ulivo, quello era un progetto nato per unire».
Qual è lo stato del renzismo?
«Renzi è entrato in un ciclo che non è più quello delle europee. Ha commesso l’errore, quando era forte, di non investire in un progetto politico. Ha ritenuto che il suo carisma di capo del governo fosse sufficiente a tenere insieme una prospettiva anche politica. E non ha rinnovato le infrastrutture politiche e nemmeno la classe dirigente. Come sappiamo il carisma giocato in un rapporto diretto con l’opinione pubblica ha una fase ascendente velocissima e una fase discendente altrettanto rapida».
Nell’autunno del 2018 verranno celebrate anche le consultazioni provinciali. Il governatore uscente Ugo Rossi ha dato la sua disponibilità a rifare le primarie per la scelta delle leadership. Come lo valuta?
«Premetto che non intendo dare indicazioni sul futuro, la mia è una valutazione di metodo. Celebrare delle primarie con il presidente uscente in campo non ha senso, produrrebbero una lacerazione e l’allontanamento dell’elettorato. O la coalizione ha una convinzione politica che in questa fase serve continuità e allora conferma il presidente oppure valuta necessario un assetto diverso e quindi deve responsabilmente comunicare al presidente in carica che non ci sono più le condizioni per la sua ricandidatura trovando una via d’uscita».
Quando deve essere compiuta la valutazione? Prima delle elezioni politiche?
«Nel più breve tempo possibile».
La cooperazione è in difficoltà, Itas affronta una fase complicata. Il sistema economico-sociale presenta delle falle. È preoccupato anche in chiave elettorale?
«No, non mi preoccupa la contingenza del 2018, ma la prospettiva. Vedo una certa disattenzione in generale circa il futuro di importanti presidi sociali, economici e finanziari del Trentino. La fase di lunga transizione della cooperazione; la sfida ardita, speriamo non temeraria, del gruppo bancario cooperativo; le traversie dell’Itas; le incertezze che gravano sul futuro di importanti realtà anche private in questa stagione di spinta alle concentrazioni e alla competizione globale, richiedono un forte pensiero di sistema e la mobilitazione di una classe dirigente all’altezza dei rischi che corriamo».
Citava il Terzo statuto come grande sfida comune con Bolzano per il rilancio del modello autonomistico. Ma il percorso di Consulta e Convenzione è arenato. Come può essere rilanciato? I migranti possono entrare come nuova minoranza?
«Una terra che ha costruito dal 1946 la propria stabilità sulla cultura delle relazioni e delle interdipendenze non dovrebbe avere difficoltà a rapportarsi con esigenze di nuove mediazioni. Abbiamo risolto i nostri problemi non solo riconoscendo i diritti individuali ma i diritti dei gruppi linguistici e dunque delle minoranze. È un modello assolutamente anomalo in Europa. Dovremmo applicare lo stesso principio anche con le nuove minoranze che sono da noi. Del resto, una Comunità autonoma che può contare nel suo pantheon una figura come Chiara Lubich, non può avere paura di confrontarsi con la sfida delle diversità del nostro tempo. Questa dovrebbe essere una delle piste di lavoro per un Terzo statuto che ha l’esigenza di partire da un’idea di società. La Convenzione e la Consulta si sono trovate in difficoltà perché hanno avuto un approccio giuridico-istituzionale che non ha interessato i cittadini. La discussione va dunque riaperta su nuove basi».