Vi sono dei momenti nella vita delle comunità nei quali prevale il senso di smarrimento; sembra quasi che nulla vada nel verso giusto, conosciuto; l’orizzonte ci appare sempre più avvolto nella nebbia. Noi viviamo in uno di questi momenti. Basta pensare anche solo all’ultima settimana. Eravamo ancora sconcertati dall’esito del voto nelle città italiane ed ecco che un altro voto, quello inglese di giovedì, ci mette difronte ad uno sconcerto questa volta di portata enorme e drammatica. In una fase come questa, il volume che oggi presentiamo diventa una bussola con quale ritrovare le tracce del sentiero. Certo, da un lato – leggendolo – ci pare di entrare in un mondo lontano, che non c’è più; in una dimensione terribilmente “altra” rispetto a quella del nostro tempo. “Altra” per spessore morale; per lucidità di pensiero; per coraggio delle posizioni. Ma, dall’altro lato, possiamo ritrovare in questo volume la trama di un disegno che è sopravvissuto nella storia a tanti periodi travagliati e sopravviverà anche a questo tempo di passaggio. A condizione però che non si smetta di coltivarlo e di perseguirlo. È il disegno di una cultura politica cattolico democratica che non si esaurisce nei partiti attraverso i quali si esprime, ma abita i cuori e le menti delle persone e i luoghi più impensabili delle comunità. Questo volume e’ dunque come una bussola che ci aiuta ad orientarci. Andreatta è stato capace di vedere prima le cose, di avvertire in anticipo i segni dei tempi. Basta leggere – per fare solo un esempio – il suo brano riportato oggi in prima pagina dal Trentino sul tema della leadership nelle democrazie moderne. Andreatta aveva avvertito tra i primi gli scricchiolii morali e istituzionali del sistema politico italiano, sui quali ragionava con lucidità ben prima del crollo degli anni novanta. Un crollo che forse poteva essere evitato attraverso un serio percorso di riforme, se si fosse dato ascolto a Andreatta e a chi ragionava come lui. Il Gruppo Parlamentare “Democrazia Solidale – Centro Democratico” che ho l’onore di presiedere alla Camera, qui rappresentato anche da numerosi colleghi che ringrazio, ha voluto collaborare con l’Arel a questa presentazione non solamente perché si sente in sintonia culturale e politica con il magistero di Andreatta, ma anche perché – in questa travagliata legislatura nella quale cerchiamo di non essere né gufi ne’ pappagalli – avvertiamo ogni giorno che le analisi contenute in questo volume sono ancora tutte di una attualità sconvolgente. Ogni giorno misuriamo il deficit di quella moralità pubblica che lui evocava e sopratutto viveva; una moralità che non è solo “non rubare”, ma piena coscienza dei doveri di responsabilità, efficienza, competenza e imparzialità di chi opera a qualsiasi titolo nelle pubbliche istituzioni. E di questa moralità fa parte integrante anche il coraggio di dire la verità al popolo, di esserne guida, di indicare la via possibile, che non sempre è quella più in discesa. In tal senso, l’attualità di Nino Andreatta e’ sopratutto quella di essere irriducibilmente altro rispetto alla moda populista, dolce o aggressiva non importa; un modello alternativo di concezione di ciò che la politica deve essere; di ciò per cui la politica esiste; un esempio di ciò che distingue il popolarismo dal populismo. Straordinariamente attuale – hainoi – è il coraggio con il quale ha testimoniato un rapporto con le banche e con la finanza ispirato ai principi di indipendenza, trasparenza e sacrale rispetto del risparmiatore. Così come la sua avversione alla scorciatoia rappresentata dal debito pubblico, da non confondersi con l’ottusità ragionieristica sui parametri disgiunta da un sano realismo legato alle circostanze sociali ed economiche; piuttosto da intendere come rifiuto di scaricare sulle spalle delle nuove generazioni il costo delle pigrizie e degli egoismi di chi pro tempore ha in custodia il bene comune di una società. Più che attuale – quasi profetico – e’ il suo richiamo ad una politica capace di costruire anticorpi rispetto al rischio del sopravvento del potere per il potere: dobbiamo dare ai cittadini strumenti per difendersi da noi stessi, diceva. Sognava una politica fondata su leadership forti, non sulla debolezza consociativa e includente. Ma avvertiva la necessità che questa forza si collocasse in un contesto altrettanto robusto, fatto di cittadini responsabili e consapevoli, di regole istituzionali di equilibrio, di contrappesi adeguati, in un gioco democratico a somma positiva. Chissà come sarebbe cambiato il corso, non solo politico, del nostro Paese se – dopo il dramma di Aldo Moro, la Democrazia Cristiana avesse vissuto gli anni ottanta con questo approccio e questi orientamenti? Ma la storia non si fa con i “se”, come sappiamo. E di fronte al crollo di un sistema politico, che si piegava su se stesso per cedimento strutturale, Andreatta fu tra i primi a impegnarsi per costruire nuove infrastrutture di rappresentanza. Cade quest’anno il ventennale della nascita dell’Ulivo. Una ricorrenza quasi oscurata, mentre dovrebbe essere celebrata come tappa fondamentale di una storia. Io non so se Andreatta, in origine, avesse pensato all’Ulivo per rappresentare le culture popolari e liberali che si alleavano con la Quercia, oppure per simboleggiare, come poi è stato, l’intera coalizione del centro sinistra, in larga parte poi confluito nel Partito Democratico. Anche in questo caso, la storia non si fa con i “se”. E l’Ulivo fu la risposta ad una duplice esigenza. Da un lato serviva per difendersi dall’avanzata imponente del berlusconismo (salvando così anche l’onore della tradizione popolare e democratico cristiana che altri avevano portato ad Arcore in dote) e dall’altro serviva però anche a organizzare partiti e società civile attorno a quell’obbiettivo ambizioso ma difficile che fu l’ingresso dell’Italia nell’Euro. A ben vedere, anche oggi – pur in presenza di scenari e assetti radicalmente diversi – abbiamo due esigenze analoghe e di analoga difficoltà. Dobbiamo rapportarci con l’avanzata prepotente di nuovi soggetti politici che riescono a mobilitare crescenti parti di opinione pubblica su uno spartito anti sistema e nel contempo dobbiamo mobilitare e convincere la nostra comunità attorno ad una strategia di rilancio dell’Unione Europea dopo Brexit e tutto ciò che da Brexit discenderà. Non saranno due passeggiate, né la prima, né la seconda. Il recente voto nelle città italiane segnala un problema strutturale che non si supera con trovate tattiche. È un voto che viene da lontano e che esige – come ha affermato Romano Prodi – il rilancio di un progetto sulle nostre periferie. Cosa che non significa semplicemente interventi di recupero edilizio, ma strategia contro le crescenti disuguaglianze e le solitudini che derivano dalla rottura della trama comunitaria. E analogamente la strategia europea dopo Brexit non potrà essere fatta da attendismi ma dovrà passere da forti accelerazioni nel percorso di unità politica ed economica, per le quali non sappiamo se le opinioni pubbliche – anche quelle non contrarie all’idea europeista – sono oggi pronte. C’è dunque bisogno, nuovamente, di una infrastruttura politica capace di mobilitare, condividere, motivare, coinvolgere non solo ceti dirigenti ma popolo e comunità, come è stato con l’esperienza dell’Ulivo. Rileggere Nino Andreatta oggi, di fronte a queste due necessità, significa dunque ricercare ispirazioni non banali e non contingenti, per capire che forse non ci possiamo accontentare dei regolamenti di conti o delle scorciatoie, come quella di brandire un referendum costituzionale come un’arma impropria a favore o contro il governo o quella di invocare una modifica della legge elettorale – cosa peraltro in se’ plausibile e ragionevole – pensando però che ciò possa supplire a un deficit evidente di progetto sociale e alla inadeguatezza palese di tutte le attuali strutture partitiche. Rileggere Nino Andreatta – oggi – significa cogliere fino in fondo l’esigenza di una sorta di nuovo Ulivo, che rimetta in connessione la politica con il cuore e la mente di molti cittadini disorientati e frastornati; che mobiliti e motivi attorno a mete ambiziose e difficili, sopratutto in Europa; che alla freddezza delle Riforme pur importanti che Governo e Parlamento stanno portando avanti aggiunga il calore popolare, quello che non deriva dal marketing ma dall’empatia e dalla comune appartenenza a una visione di valori e di prospettive. Permettetemi infine un riferimento tutto trentino. Abbiamo voluto richiamare il nome “Autonomia e Partecipazione” come simbolo di un percorso di riflessione che stiamo portando avanti da qualche tempo attorno al futuro di questa nostra speciale Autonomia. Così si chiamava la corrente di Bruno Kessler; quella straordinaria comunità politica nella quale militavano molti dei nostri padri politici, alcuni dei quali (come Flavio Mengoni, Enrico Bolognani e Armando Paris) sono scomparsi da poco e per i quali stiamo organizzando momenti adeguati di memoria. Tutti avevano in Nino Andreatta un punto di riferimento morale e politico. Per questo possiamo dire che il Trentino gli deve moltissimo, perché senza il suo apporto non ci sarebbe stata quella grande stagione di modernizzazione della nostra comunità – allora povera e maginale – e non ci sarebbe il Trentino come oggi lo conosciamo. Il Trentino – che pure gli ha fatto l’affronto di bocciarlo nel 92 alle elezioni per il collegio senatoriale che era di Bruno Kessler , morto l’anno prima – deve a Nino Andreatta una riconoscenza infinita. E a lui si può e si deve ispirare, nella stagione difficile della riforma dello Statuto, per coltivare ancora una volta l’idea di una Autonomia della responsabilità e non del privilegio. Una Autonomia che significhi più doveri, più impegno, più virtuosità, più investimenti in conoscenza, più apertura; perché altrimenti non si rimane o non si diventa una Comunità Autonoma, ma tutt’al più ci si accontenta di essere una entità amministrativa un poco più dotata di risorse pubbliche di altre, fin che dura. In conclusione, lasciatemi rivolgere un saluto particolare a Enrico Letta, visto che per la prima volta mi rivolgo a lui in pubblico dopo le sue dimissioni da deputato. In quella occasione, durante la seduta della Camera che ne ha preso atto, il nostro Gruppo Parlamentare osservava che quelle dimissioni non segnalavano rancore, ma piuttosto una necessità di riconversione non banale. Dimissioni non certo neutre rispetto alle rotture che si sono consumate, ma orientate sul sentiero della politica più che su quello del risentimento. Esprimevamo l’auspicio che il sentiero della buona politica – nonostante rotture anche dolorose – portasse ad evitare due rischi sempre presenti. Quello di chi si crede un Highlander ( uno solo sopravviverà…) e quello di chi attende sulla riva del fiume un cadavere che prima o poi passerà. Il centro sinistra, ma più che altro il Paese, non ha bisogno di nulla di tutto ciò. La posta in gioco va diventando ogni giorno sempre più alta e i rischi sempre più forti. Non ci interessano le congetture che spesso coinvolgono Enrico Letta in improbabili regolamenti di conti nelle dinamiche di partito. Conosciamo il profilo della persona e apprezziamo il senso del percorso che per il momento ha deciso di intraprendere. E tuttavia, un punto e’ però chiaro. Il centro sinistra e il Paese hanno estremo bisogno di ritrovare la bussola. Tutti sappiamo anche che in politica, come ammoniva Moro, non si può saltare nel tempo che verrà, occorre vivere il tempo che c’è, con tutte le sue contraddizioni, le sue insidie e aridità. E sopratutto sappiamo che la testimonianza di Nino Andreatta non può essere archiviata in un museo. Essa e’ un patrimonio prezioso che deve essere messo a frutto nell’interesse del bene comune.