Il dibattito sollevato dal Direttore attorno alla domanda se l’Autonomia Speciale sia o meno reversibile si è sviluppato in queste settimane con contributi e riflessioni anche di grande spessore, dalle quali si possono derivare le piste principali del percorso futuro.
In molti casi, chi è intervenuto ha sottolineato uno o più aspetti specifici e particolari della questione autonomista: l’attualità dell’aggancio internazionale; il rapporto tra Trento e Bolzano; l’esigenza della virtuosità e della qualità nella gestione dei poteri locali; la necessità che si passi da una concezione difensiva ad una orientata allo sviluppo innovativo; il dovere di essere comunque consapevoli del nostro essere dentro un contesto nazionale ed europeo e così via. Tutti aspetti di grande interesse, certamente meritevoli di attenzione e approfondimento, che devono però essere ricomposti su uno spartito generale che sta radicalmente cambiando.
Ciò a cui stiamo assistendo in Italia e’ la crisi irreversibile del regionalismo.
Alla radice di questa crisi vi sono molti fattori, come il rapporto mai compiutamente definito tra principio autonomista e principio statalista nell’ordinamento della Repubblica, cosa che ha comportato sovrapposizioni e moltiplicazioni di apparati e di politiche; la non sempre brillante prova delle classi dirigenti regionali sia sul piano della efficacia del governo che su quello della moralità e della trasparenza; la scarsa corrispondenza tra ambiti delle Regioni e ambiti di identità e comunanza di interessi dei territori.
Dalla Riforma del Titolo V del 2001 in poi si è cercato di affermare principi di federalismo: ma tutto si è sviluppato in modo confuso, con provvedimenti incoerenti e con politiche annunciate e mai del tutto praticate.
L’impatto con la crisi globale e con la conseguente aria di verticalizzazione e di brutale semplificazione ha fatto il resto.
Si congettura su accorpamenti per diminuire il numero delle Regioni, come se il problema fosse la loro consistenza quantitativa e non invece il loro senso sociale e istituzionale, le loro funzioni, il loro rapporto con il resto del sistema pubblico.
Ora, e’ del tutto chiaro che se questo processo di superamento delle Regioni va avanti ( e tutto lascia pensare che sarà così ) diventa per noi sempre più difficile essere Regione ” speciale “. Una Regione e’ ” speciale ” in rapporto ad altre che sono invece ” ordinarie “, ma se queste ultime sono in via di consunzione non è più da questa relazione speciali/ordinarie che la nostra autonomia può trovare motivo di esistenza.
In realtà, come spesso si è detto, non è mai stato così fino in fondo.
La radice della nostra autonomia e’ molto diversa rispetto a quella delle altre Regioni e si richiama ad una vicenda storica complessa e travagliata ( consiglio in questo senso di leggere l’ultimo bellissimo libro di Paolo Rumiz ) che l’Accordo di Parigi e il conseguente Statuto di Autonomia hanno riconosciuto e alla quale hanno dato forma istituzionale.
Tuttavia, se non stiamo attenti, il crollo del sistema regionale pone rischi fortissimi anche a noi e non solo – direi non tanto – sul piano finanziario.
Dunque, mi pare fondamentale rinnovare il significato della nostra peculiare natura istituzionale. E siccome ” nomina sunt substantia rerum “, torno a riconfermare che è veramente tempo di adottare una definizione diversa per gli enti della nostra Autonomia. ” Comunita’ Autonoma ” non solo e’ più bello e significativo, ma e’ emblematico di un progetto autonomistico autentico, nel quale il sostantivo da’ forza e pregnanza particolari all’aggettivo.
La signora Lanzetta, fino a qualche giorno fa Ministro per gli Affari Regionali, ha sostenuto venerdì scorso che le Autonomie Speciali non devono essere ” intoccabili “. Ha torto se ciò significa che Roma può disporne a suo piacimento e in ossequio alla moda di turno: l’Autonomia non è ” concessa ” ma riconosciuta e costituisce nella sua essenza un patrimonio indisponibile, un bene comune che non può essere conculcato, a pena della rottura di un patto sottoscritto non solo tra Italia e Austria ma tra la comunità locale e lo Stato italiano nella sua evoluzione repubblicana e democratica.
Ha ragione, invece, se ciò significa che l’Autonomia nelle sue forme, nei suoi strumenti e nella sua rappresentazione deve aderire allo spirito del tempo che muta.
Ma qual è lo spirito del tempo prossimo futuro?
È forse quello della omologazione dei modelli e della verticalizzazione dei poteri? Certo, questo è un vento impetuoso, adesso. Ma siamo in una fase storica di temporali e nei temporali, come sappiamo, il vento cambia spesso direzione.
Ed infatti, la spinta che risponde alla crisi globale e alla erosione dei livelli di benessere dei ceti medi attraverso la cessione del potere a classi dirigenti sempre più ristrette in cambio della promessa del ritorno alla sicurezza di prima sta cedendo il posto qua e là ad interrogativi profondi sul ” senso ” delle cose e sulla pericolosa scorciatoia dell’individualismo. Sta tornando l’interesse verso una democrazia più comunitaria e partecipata, più legata a valori e dimensioni di umanesimo solidale.
La tendenza a concentrare potere sempre più in alto, sta provocando una nuova domanda di radicamento, fino al punto che si riaprono le vecchie faglie della storia che la costituzione degli Stati nazionali aveva nascosto. E l’idea di Europa degli Stati Nazione, prigioniera delle logiche solo finanziarie e mercantili lascia sempre più lo spazio ad una sensibilità diversa.
Attorno a queste dinamiche si gioca la nostra ” specialità ” del futuro.
Saremo speciali se riusciremo a interpretare nel nostro modello istituzionale una idea di futuro radicalmente e credibilmente diversa rispetto a quella oggi prevalente in Italia.
Per questo le nostre ” speciali ” parole d’ordine dovranno essere comunità, partecipazione, condivisione, solidarietà, democrazia economica, diversità, valorizzazione delle minoranze e delle piccole dimensioni in una logica di policentrismo, appartenenze multiple.
In una parola, la terza via tra omologazione centralista da un lato e dissoluzione dei vincoli in chiave localista e micro nazionalista dall’altro.
Siamo un lembo di Mitteleuropa dentro uno Stato che, come detto, non ha mai risolto la questione della sua natura – se centralista oppure autonomista – nonostante la fuga in avanti insita nell’appellativo ” federale ” usato nel dibattito e negli stessi testi costituzionali negli ultimi anni, con il corollario di spinte separatiste e ridicoli riti celtici. Ora l’impalcatura retorica sta cedendo e il pendolo torna robustamente verso Roma, com’era prevedibile.
Ecco perché – nonostante sobrietà, efficienza, buon uso delle risorse pubbliche, alleggerimento delle strutture e via dicendo siano tutte cose buone e giuste – non è su questo spartito che potremo scrivere le note di una nuova musica autonomistica.
Sono tutte attitudini necessarie ma non sufficienti per motivare una ” specialità “. Se mancano o si attenuano, ciò diventa un’arma contro l’autonomia; ma se ci sono e si rafforzano, non significa che essa sia rispettata e tutelata.
Viste le tendenze in atto, l’unica strada per noi e’ rivendicare fino in fondo la nostra intrinseca diversità. Anche in un Paese centralista può esserci una ” Comunità Autonoma ” che negozia i termini della sua peculiare appartenenza alla nazione con un occhio alla storia e l’altro alle moderne dinamiche di governance multilivello delle aree cariche di complessità come quelle dell’Arco Alpino.
Per questo occorre lavorare tutti assieme, senza distrazioni, attorno ai quattro ambiti correlati di una possibile strategia. I primi tre ambiti sono istituzionali: definizione coraggiosa delle Norme di Attuazione ancora aperte ( e’ fondamentale per marcare la natura speciale della nostra Autonomia poter esercitare funzioni in ambiti tipicamente statuali come la giustizia o la riscossione delle tasse ); gestione attenta degli accordi finanziari e loro consolidamento per il futuro ( insisto a ritenere importante perseguire la definizione di un meccanismo più oggettivo e onnicomprensivo per stabilire la nostra partecipazione alla finanza pubblica statale ); riforma dello Statuto di Autonomia ( non sono peraltro affatto convinto dell’orientamento a procedere in due tempi, a breve adeguamento minimale e in futuro riforma più strutturale ). Il quarto ambito chiama in causa tutti i cittadini e le forze vive della nostra comunità: essere autonomi nel senso della nostra specialità e’ faticoso ed esige impegno, condivisione, manutenzione dei valori etici e civili, consapevolezza diffusa di diritti e doveri.
Ci sarebbero poi da aggiungere, tra le cose essenziali per il percorso, la coesione delle forze politiche e delle coalizioni e la capacità di visione della politica. Ivi compresa la propensione ad immaginare ” forme partito” originali e innovative, capaci di interpretare anche sul piano della organizzazione della politica la peculiarità del sistema istituzionale. Ma il riferimento porterebbe alla attualità e non e’ questo lo scopo del mio piccolo contributo al dibattito.