Resoconto stenografico dell’Assemblea Seduta n. 351 di mercoledì 17 dicembre 2014.

Intervento dell’Onorevole Gian Luigi Gigli del gruppo parlamentare Per l’Italia – Centro Democratico

La nostra riflessione muove da una constatazione, se volete: come, ormai, su alcuni temi fosse impossibile non intervenire, a seguito della trasformazione, che si è verificata sotto i nostri occhi, del ruolo del Parlamento, che ormai legifera soltanto impropriamente, per decreti; a seguito della trasformazione, se vogliamo extracostituzionale, del ruolo del Presidente della Repubblica, per il quale si vorrebbe sempre di più un’investitura diretta legata direttamente al mandato popolare piuttosto che alla mediazione delle forze politiche, e per quanto riguarda, infine, il rapporto spesso conflittuale con le autonomie regionali verificatosi dopo il fallimento della riforma federalista del Titolo V della Costituzione nel 2001. Tutte queste erano buone ragioni per andare avanti su una riforma costituzionale, e abbiamo compreso bene anche quali fossero le linee guida che volevano ispirarla in questa fase da parte del Governo, che l’ha proposta: il superamento del bicameralismo paritario certamente, lo snellimento del procedimento legislativo, bicameralismo e procedimento legislativo che erano da tempo in attesa di essere rinnovati nella direzione di una maggiore capacità di decidere, di far sì che queste decisioni rappresentassero le istanze e le sensibilità della multiforme società italiana, e di facilitare, invece che intralciare, l’azione di Governo, e magari, come ha auspicato questa mattina l’onorevole Pisicchio, di semplificare e sfrondare quella selva oscura delle leggi che copre il nostro Paese, e infine la necessità, la bussola, la direzione di un nuovo rapporto con le autonomie territoriali.

Il primo obiettivo, il superamento del bicameralismo paritario, è stato perseguito da questa riforma attraverso la differenziazione delle due Camere per quanto riguarda competenze, modalità di elezione e rapporto fiduciario con il Governo, in particolare attraverso la previsione che la fiducia verrà espressa da una sola Camera.

Il secondo obiettivo – lo snellimento del procedimento legislativo e la facilitazione della governabilità – si vorrebbe raggiunto, oltre che diversificando le competenze tra Camera e Senato, anche attraverso strumenti quali la possibilità per il Governo di presentare disegni di legge con garanzia di completamento della valutazione entro quella che è stata definita una data certa.

Il terzo obiettivo – il nuovo rapporto con le autonomie territoriali – viene ricercato, invece, oltre che attraverso la composizione stessa e le modalità di elezione del Senato quale rappresentante delle istituzioni territoriali, anche attraverso il superamento della legislazione cosiddetta concorrente tra Stato e regioni, identificandone con più precisione gli ambiti esclusivi e chiarendo, per quelli che esclusivi non sono, che la competenza dello Stato si limiterebbe all’identificazione dei principi generali.

Si tratta di obiettivi che, per quanto di portata solo pragmatica – certamente, non stiamo rifacendo la Costituzione – non per questo non possono che essere giudicati da noi positivamente e risultano molto condivisibili. Essi, a nostro avviso, sono stati, tuttavia, raggiunti in modo solo parziale. Infatti, se per quanto riguarda il superamento del bicameralismo paritario, l’obiettivo è stato certamente centrato – l’attività del Senato non sarà più la fotocopia di quella della Camera, rispetto alla quale si distinguerà per il potere di iniziativa legislativa, per le competenze, per i poteri stessi –, per quanto riguarda, invece, il procedimento legislativo e la governabilità occorre, a mio avviso, distinguere.

Sul primo aspetto, infatti, restiamo perplessi nella valutazione dell’esito raggiunto, caratterizzandosi il procedimento per una grande farraginosità. Diversi, infatti, saranno i tipi di competenza tra le due Assemblee e le maggioranze per esse richieste: avremo leggi di esclusiva competenza dei deputati, come quelle di amnistia e di indulto; leggi per le quali è previsto un potere

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paritario delle due Camere, per esempio, le riforme costituzionali e leggi costituzionali; leggi su cui il Senato non potrà intervenire, a meno che la richiesta non ottenga un quorum dei due terzi – mi riferisco alle leggi di stabilità e di bilancio –, richiesta alla quale, tuttavia, la Camera potrà opporsi a maggioranza assoluta; su altre leggi il Senato potrà chiedere di mettere mano con un quorum più basso: basterà la maggioranza assoluta dei senatori per intervenire sulle leggi su Roma capitale, sul governo del territorio, sulla Protezione civile, sugli atti normativi dell’Unione europea sui costi e sui fabbisogni standard, sulla finanza locale. A questo tipo di interventi senatoriali la Camera potrà dire di «no» a maggioranza assoluta. Infine, ci saranno leggi che potranno essere richiamate dal Senato a maggioranza semplice, a cui la Camera si potrà opporre a maggioranza semplice.

Diverse saranno anche le possibilità di avviare il procedimento, così come è facile prevedere che questo impianto potrà essere fonte di problemi. Alcuni esempi: le regioni potrebbero organizzare in Senato una resistenza sulla legge di bilancio e su quella di stabilità, coagulando la maggioranza richiesta dal quorum dei due terzi dell’Assemblea; potranno essere discusse, anche perché una stessa legge e uno stesso tema potrebbero avere aspetti di competenza diversi e, quindi, alcune leggi potrebbero essere fonte di discussione; potrebbe, infine, verificarsi il caso, se volete paradossale, ma non troppo, per cui i due Presidenti di Assemblea non arrivano a raggiungere l’intesa e si finisce direttamente davanti alla Corte costituzionale.

Per questo, insieme ad altri partiti della maggioranza di Governo, noi avevamo proposto che il procedimento legislativo fosse semplificato, anche al fine di limitare il contenzioso, prevedendo come regola generale che la Camera, sede del rapporto fiduciario, debba approvare in via definitiva le leggi a maggioranza semplice e limitando il ricorso alla maggioranza assoluta soltanto a pochi casi, ben individuati e circoscritti.

Riguardo al tema della governabilità, giudichiamo, invece, positivamente la possibilità per il Governo di presentare disegni di legge che abbiano possibilità di concludere il loro iter entro una data certa. Questo strumento dovrebbe evitare l’abuso della decretazione d’urgenza, rispetto alla quale è presente il duplice vantaggio di non entrare subito in vigore e di consentire al Parlamento di apportare modifiche con maggiore facilità – è bene, tra l’altro, che in Commissione sia stato emendato il cosiddetto voto bloccato – e potrà ottenere questi risultati senza costringere a rimediare ex post agli effetti delle eventuali correzioni, mentre permette al Governo di superare i limiti della palude regolamentare e il ricorso improprio all’ostruzionismo. Infine, per quanto attiene al rapporto con le autonomie territoriali, oggi, l’Italia non è più, per fortuna, il Paese centralista modellatosi con la conquista sabauda. Basterebbe a testimoniarlo il fatto che la nuova Costituzione identifica il Senato come rappresentanza delle autonomie territoriali. L’Italia è diventata, con molta fatica, un Paese articolato su base regionale, continuando però a restare, per molti aspetti, uno Stato ispirato al modello prefettizio napoleonico. L’Italia, certamente, non è mai diventata in modo compiuto un Paese federale e oggi perde, a nostro avviso, un’altra grande occasione per avvicinarsi a questo modello.

È difficile pensare, peraltro, che esso possa realizzarsi senza che siano chiariti i limiti della rappresentatività e del mandato dei senatori. Il modo in cui i senatori consiglieri regionali e i senatori sindaci saranno identificati, non creerà, infatti, alcun vincolo di rappresentanza con le istituzioni che essi dovrebbero rappresentare. A nostro avviso, i senatori avrebbero dovuto essere espressioni delle giunte regionali e rispondere ad esse, non è stato possibile, quel che è certo, però, è che il nuovo Senato non è neanche l’ombra del Bundesrat tedesco, perché non vi è rappresentanza senza che si debba rendere conto delle proprie scelte e decisioni a chi si sta rappresentando.

Su questi temi non risolti, pur senza modificare i criteri di riparto maggioranza e minoranza, il nostro gruppo aveva tentato in Commissione, insieme ai colleghi di altri partiti, di emendare il testo proponendo di includere almeno obbligatoriamente tra i senatori i presidenti delle giunte regionali e di limitare il mandato dei senatori almeno nelle votazioni sulle materie strettamente regionali. Purtroppo non vi è stato spazio per questa iniziativa e ci auguriamo che ce ne possa essere di più in Aula. È presumibile che, se questo non accadrà, le regioni si sentiranno non vincolate politicamente dalle decisioni del Senato e che altri spazi di confronto dovranno essere mantenuti aperti, per

esempio la Conferenza Stato-regioni, un istituto che, come è stato poco fa richiamato dalla presidente Bindi, rischia di rimanere in vita come la verza terza Camera paracostituzionale e le cui competenze, invece, noi avevamo proposto di ridurre, fino a limitarle al solo ambito amministrativo.

Abbiamo quindi timore che le difficoltà di un corretto rapporto tra lo Stato e le autonomie territoriali, lungi dall’essere risolte, potranno trovare nel nuovo schema costituzionale un ulteriore motivo di complicazione e la fonte per nuove tensioni e contenziosi davanti alla Corte costituzionale. Tensioni e contenziosi alimentati anche dall’inevitabile sovrapporsi di temi di competenza esclusiva statale o regionale all’interno delle stesse leggi. La soluzione non può certamente essere quella della clausola di supremazia, cioè la possibilità per lo Stato di scavalcare le regioni nei casi in cui lo richieda la tutela dell’interesse nazionale. Resta dunque, per noi, la preoccupazione che l’obiettivo, decisamente più modesto, della riforma fosse solo quello di correggere alcune distorsioni del regionalismo, senza manifestare nemmeno eccessivo pudore nel mostrare nostalgie centraliste che stanno a monte di questo progetto.

Per inciso, questo ci richiama a un’osservazione di carattere più generale. Raramente il tema della revisione costituzionale è stato posto in modo corretto, cercando cioè di correlare adeguatamente cause ed effetti e individuando con attenzione le cause delle disfunzioni riscontrate nel funzionamento dei pubblici poteri, finendo così, spesso, per imputare alla Costituzione della Repubblica disfunzioni più propriamente e prevalentemente derivanti da difetti delle leggi ordinarie, non solo quelle elettorali, o dei Regolamenti parlamentari, quando non dalla loro interpretazione o dalle relative prassi applicative. Calandosi nello specifico, questo vuol dire che per correggere alcune distorsioni del regionalismo, come richiamato ieri dal collega Buttiglione, sarebbe bastato togliere alle regioni incapaci o sprecone, per periodi anche prolungati di risanamento, segmenti della loro gestione, anche importanti, come la sanità, procedendo a commissariamenti veri, esterni al potere politico regionale. All’inverso, nell’ambito delle autonomie sarebbe stato opportuno avere il coraggio di riconoscere e promuovere i modelli di regionalismo virtuoso di cui alcune regioni sono state capaci (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord e Autonomie), per esempio, anche se non solo, le regioni a statuto speciale dell’arco alpino. Anche per questo siamo dispiaciuti che non vi sia stata alcuna apertura verso le nostre proposte emendative, miranti a promuovere almeno l’esercizio di un regionalismo a geometria variabile, fondato sull’allargamento degli spazi di sussidiarietà e sull’esercizio di un’autonomia responsabile e solidale.

Infine, sempre per quanto riguarda le autonomie, non comprendiamo, dopo aver cancellato le province dall’articolo 114 della Costituzione, quale sia stata la logica che abbia condotto a dare comunque rango costituzionale alle aggregazioni di area vasta, richiamandole al comma 4 dell’articolo 40 della legge di riforma, creando, peraltro, voglio dire anche qui, una disparità tra i cittadini. Noi avremo, infatti, i cittadini delle aree metropolitane, che potranno, secondo la legge Delrio, eleggere direttamente i loro rappresentanti, mentre avremo i cittadini delle aree, per esempio, di montagna, i quali dovranno obbligatoriamente delegare, nell’ambito dell’area vasta, il potere di rappresentarli ai loro consiglieri comunali.

Infine, un’altra sottolineatura. Questa riforma costituzionale, che porta un oggettivo rafforzamento dell’asse Governo-maggioranza parlamentare – non vogliamo dire tout court a un regime presidenziale –, certamente, però, non può essere letta separatamente da quanto avviene sul tavolo parallelo della nuova legge elettorale; una legge elettorale ipermaggioritaria che, proprio per questa sua caratteristica, avrebbe richiesto una maggiore attenzione ai contrappesi, agli organi di garanzia, che non possono e non debbono finire sotto il completo controllo di una maggioranza parlamentare espressa pur sempre da una minoranza del corpo elettorale, soprattutto quando si attiva un meccanismo di stretta identificazione tra l’Esecutivo e il Parlamento che lo sostiene. Ne derivava, a nostro avviso, la necessità di modificare i quorum deliberativi con cui le Camere esprimono o concorrono ad esprimere gli organi di garanzia, ovvero adottano atti di garanzia, dalla revisione costituzionale ai Regolamenti parlamentari. Per questo, mentre non possiamo non apprezzare l’approvazione in extremis dell’emendamento che ha permesso l’elevazione del quorum

per l’elezione del Presidente della Repubblica, che non potrà ora mai scendere al di sotto dei tre quinti dei votanti, avevamo proposto, insieme a Scelta Civica e al Nuovo Centrodestra, che accanto all’elezione del quorum dei grandi elettori vi fosse anche l’allargamento della platea, ad includere altri delegati delle regioni e gli eurodeputati, visto, tra l’altro, il peso che ha oggi la legislazione europea e il rapporto con l’Unione, per quanto riguarda ovviamente l’Italia. Anche da questo punto di vista, forse l’allargamento alla platea avrebbe evitato meglio il rischio di eventuali impasse che potrebbero crearsi con semplicemente il meccanismo dell’elevazione del quorum nell’elezione del Presidente della Repubblica. Per questo non possiamo non rammaricarci del fatto che in un sistema ipermaggioritario, come dicevo, rimarrà possibile in futuro modificare a maggioranza semplice i Regolamenti parlamentari e le stesse leggi elettorali, fino al paradosso, già richiamato poco fa dalla Bindi, e che ci auguriamo ovviamente non possa mai verificarsi, che ai sensi dell’articolo 17, basterà la maggioranza semplice della sola Camera dei deputati, eletta con il sistema ipermaggioritario, per autorizzare il Governo a entrare in guerra.

Per analoghe esigenze di garanzia, insieme agli altri alleati del partito di maggioranza relativa, avremmo preferito che venisse accolta la nostra richiesta che anche la legge elettorale, attualmente all’esame del Senato, potesse essere sottoposta a scrutinio preventivo di costituzionalità, se richiesto. E se questo non ce lo chiede di farlo necessariamente il diritto, lo avrebbero tuttavia suggerito ragioni di sensibilità e di opportunità politica, per evitare il rischio che anche la prossima legislatura possa trovarsi nella condizione di rispondere ad una accusa, per quanto infondata, di essere un Parlamento delegittimato; un Parlamento delegittimato, per di più a cui verrebbero riconosciuti poteri regolamentari e di intervento che questo Parlamento oggi ancora non ha. È questa, secondo me, l’ultima cosa di cui il nostro Paese avrebbe bisogno.

Noi vogliamo augurarci che alcune delle criticità che ho voluto richiamare possano trovare ancora lo spazio, l’opportunità, per una rivalutazione; che ci sia ancora uno spazio, cioè, per un lavoro emendativo vero su un testo non bloccato al di fuori di quest’Aula, che sia possibile fare qualche passo avanti. Io non ritengo che ci sia un’opposizione feroce, da questo punto di vista, da parte dei senatori; anche perché credo che ormai sia ben chiaro agli stessi senatori che il Senato che uscirà da questa riforma costituzionale non sarà più quello nel quale loro fino ad oggi si sono trovati ad operare.

Vi è ormai un consenso direi sufficiente sull’impianto generale di questa riforma. Io spero, voglio sperare che proprio per l’importanza del tema, un tema sul quale noi non rimetteremo mano facilmente nei prossimi anni, un tema che riguarderà il futuro della nostra democrazia, sia i relatori che il Governo vogliano lasciare lo spazio per una ulteriore discussione: che non si abbia timore di rimettere le mani almeno su quelle che sono le stonature e le criticità più evidenti che si sono appalesate nel corso dell’esame. Questo è il nostro auspicio, questo è lo spirito con cui noi collaboreremo, nella speranza che questo progetto vada in porto, ma vada in porto migliorato, secondo le linee di direttiva che ho cercato di indicare