SEMINARIO DELLA SCUOLA DI FORMAZIONE “PICCOLE OFFICINE POLITICHE”
(DIOCESI DI TORINO) 28/11/2020

“Formare alla politica”, oggi, è essenziale ed urgente.
Perché si tratta di “formare alla democrazia”.
Ed, assieme, di “riformare la democrazia”.

 

Siamo in emergenza.
Crescono (in numero e in consenso diffuso) i regimi formalmente democratici, ma in realtà autoritari ed illiberali, frutto del baratto tra libertà e (presunta) sicurezza.
Anche nel nostro contesto, la democrazia vive una stagione di erosione e di svuotamento dall’interno.
Sono noti i fenomeni che provocano tutto ciò.
Essi presentano, nello stesso tempo, aspetti positivi e rischi pericolosi.
Pensiamo alla globalizzazione, che ha aumentato lo scarto tra il ruolo degli Stati Nazionali (attorno ai quali si è costruito il modello democratico) ed il governo dei processi reali che cambiano, dal di fuori, le sorti delle singole comunità.
Pensiamo alla crisi fiscale degli Stati, che ha reso sempre più difficile la gestione del compromesso tra mercato e democrazia sul quale per decenni si è fondato il modello sociale europeo.
Oppure pensiamo alle tecnologie digitali, che offrono inedite possibilità ad un numero sempre maggiore di cittadini, ma sovvertono così le tradizionali categorie di “tempo” e “spazio” sulle quali si era strutturata la vita collettiva. E pongono non poche questioni di rispetto delle persone e di sicurezza democratica.
Pensiamo infine ai cambiamenti antropologici così travolgenti e rapidi ed a quanto essi stanno mettendo in discussione il rapporto tra diritti collettivi e diritti individuali, spiazzando sempre più sistemi sociali, istituzionali e di rappresentanza nati nel secondo dopoguerra sulla base di un forte primato della dimensione comunitaria.
Fenomeni, dicevo, che non vanno demonizzati; che aprono anche scenari di grande positività; che vanno però governati alla luce di valori e principi oggi, invero, piuttosto appannati.
E che richiederebbero un surplus di “politica”, proprio nel momento nel quale essa dimostra la sua crisi profonda.
Per questo occorre ricostruire il filo spezzato che deve legare “Politica”, “Comunità”, “Democrazia”.
Non sono tre cose diverse, in fondo: sono tre parti di un “tutto” inscindibile.
Il problema del nostro tempo è che, invece, queste tre parole si sono scisse una dall’altra.
Si pensa che possa esistere politica senza comunità (affidata cioè solo ai meccanismi artificiosi di leadership sempre più solitarie e mediatiche); oppure comunità senza politica (vissuta cioè come un litigioso e rancoroso insieme di solitudini individuali o di clan); oppure ancora democrazia senza politica e senza comunità (ridotta cioè a puro esercizio formale di un diritto di voto peraltro sempre meno esercitato).
Quel “nuovo umanesimo” al quale esorta Papa Francesco esige una prospettiva di impegno politico rinnovato per i Cristiani e per tutte le persone di buona volontà. Senza questo nuovo impegno la deriva democratica e civile rischia di essere il triste e desolato orizzonte.
Sono dunque meritorie tutte le iniziative che aiutano la comunità a riscoprire i talenti e le vocazioni ad una democrazia responsabile e ad un esercizio diffuso e partecipato della politica. Della “buona Politica”. Quella che molti Papi, da Pio XI in poi, hanno definito come la forma più alta di carità, dopo la preghiera.
Occorre però che siamo esigenti con noi stessi.
Questo percorso di ricostruzione della Politica comporta rigorosità e radicalitá.
Perché, appunto, non si tratta di “riorganizzare”, “riverniciare” o “cambiare i gruppi dirigenti”, ma di “rifondare”.
Ci si chiede attorno a quali “virtù” la Politica possa ritrovare se stessa, il suo carisma, il suo futuro.
Ne vorrei richiamare sette, che mi paiono conseguenti a ciò che Papa Francesco ci propone nel Capito V della “Fratelli Tutti”.

  1. Lo spessore “spirituale”.

 Non mi riferisco alla specifica dimensione di fede, ma alla necessità di una robustezza interiore di chi fa politica.
Ci sono pagine bellissime su questo scritte da Alcide Degasperi.
Le tentazioni della vita politica, ad ogni livello, sono molte e sono insidiose. Così come i momenti di solitudine e di sconforto. È facile cedervi in tante maniere.
Solo una forte dimensione interiore, spirituale appunto, può evitare questi cedimenti.
E può tra l’altro aiutare a mantenere uno stile di vita – nel pubblico ma anche nel privato – che sia coerente con i valori che si proclamano e a coltivare una propria libertà personale.
È difficile testimoniare buona politica se non si è liberi ed autonomi; se si è esposti, per varie ragioni, al rischio del condizionamento personale, nelle grandi cose come nelle piccole.

  1. L’onestà.

 Non parlo solo, ovviamente, del “non rubare”. L’onestà in politica è molto di più.
È non raccontare bugie al popolo. Non accodarsi all’aria che tira pur sapendo che non porta da nessuna parte. Non dire ciò che fa piacere sentir dire, sovente in termini di banali semplificazioni difronte ad una realtà sempre più complessa.
Onestà è avere il coraggio di esercitare anche la funzione “pedagogica” della politica.
Perché la Costituzione dice che il Popolo detiene la “sovranità” democratica, non la “verità”. Questo concetto esprime la più irriducibile diversità tra “Popolarismo” e “Populismo”, come magistralmente ha scritto nel suo ultimo libro il compianto Padre Bartolomeo Sorge.

  1. La “saggezza”.

 Sopratutto in tempi di nebbia fitta come questi, la Politica deve sentire la responsabilità di leggere i segni sul sentiero per guidare la comitiva che le è affidata.
Guidare, in questo senso, è cosa molto diversa sia dal “comandare”, sia dal “seguire gli umori”. È esercizio difficile della “saggezza” del governare, per dirla con il Re Salomone della Bibbia.
Ma per guidare qualsiasi comitiva, occorre che la guida sia migliore dei guidati.
Ed invece, da qualche tempo, questa banale consapevolezza è stata accantonata.
Si pensa che non sia rispettosa della democrazia. Ma invece è l’essenza della democrazia rappresentativa.

  1. La “laicità”.

 Non esiste politica democratica senza laicità.
Non è oggi scontato come può sembrare.
La lunga stagione della secolarizzazione sta vivendo una nuova fase.
Da un lato in senso positivo: oggi si è più consapevoli che il “senso del religioso” non è confinabile solo nella sfera privata delle persone, ma può dare un contributo importante anche al recupero di un più solido spirito di comunità in questi momenti di spaesamento e di incertezza generale.
Dall’altro lato, questa fase di “post secolarizzazione” presenta anche aspetti inquietanti. Non sono pochi – anche nel mondo occidentale ed anche in una parte della cristianità – gli esempi di un utilizzo dei segni e delle parole della fede religiosa per puntellare in modo blasfemo un potere indebolito, cementare un consenso fragile, aizzare il popolo contro un nemico esterno.
Ma la laicità in politica non è oggi scontata neppure su altri piani.
Pensiamo al difficile rapporto con la scienza e la tecnica. Laicità è anche riconoscere la natura complementare e non assoluta della politica e valorizzare il ruolo di altre importanti dimensioni della vita sociale.
Il “primato” della politica non è prevaricazione ma capacità di ascolto, di inclusione delle conoscenze, di rispetto di tutti gli ambiti dell’umano.

  1. La “visione”.

Chi guida una comunità deve coltivare la virtù della visione: deve guardare lontano, più lontano degli altri.
Non è tollerabile una prospettiva “piatta”, come se fossimo difronte ad una sorta di “fine della Storia” che va solo allontanata il più possibile da noi.
Ma la speranza che serve non è semplicemente il paternalistico ricorso a frasi fatte come “andrà tutto bene”. È capacità di costruire, con pazienza e realismo, scenari di novità.
Ciò serve sopratutto nei momenti di svolta storica. La grande crisi del 2007/2008 ed ancor più questa Pandemia devono produrre risposte non solo di emergenza.
Devono stimolare “resilienza” e coraggio nel delineare nuovi modelli di vita e di sviluppo economico sociale, che già del resto dovevano da tempo essere all’ordine del giorno a seguito dei cambiamenti climatici, della crisi demografica e della rivoluzione digitale.
Non è – appunto – la fine della Storia: è l’inizio di un nuovo ciclo, che la buona politica ha il dovere di immaginare e costruire. Anche se ciò può essere, nel breve periodo, fonte di scarsa popolarità.

  1. La “competenza”.

Un politico, ad ogni livello e in ogni ruolo, non basta che sia onesto, motivato e carismatico. Deve essere anche competente.
Meno proclami negli ormai insopportabili Talk Show e più studio dei dossier, vorrei dire. Perché la responsabilità della politica prevede anche la comprensione e la gestione dei meccanismi complessi della vita sociale, economica, amministrativa.
Abbiamo alle spalle (speriamo!) un periodo nel quale la competenza, l’esperienza, la capacità di pensare e di fare (auspicabilmente in questo ordine) sono state degradate a “stigma di una casta”.
Si è coltivato l’orgoglio dell’ignoranza; si è sbandierata l’imperizia come un certificato di qualità. Così, si è pensato, i “nuovi” politici possono apparire in tutto e per tutto uguali al popolo. Ma in questo modo la politica rinuncia alla sua vocazione e al suo ruolo di servizio al popolo e alla fine ne perde anche il rispetto e la stima.

  1. “Mitezza, tenerezza e condivisione”.

 Il grande Mino Martinazzoli richiamava spesso alla “mitezza” della politica. Che non è certo solo parlare senza insulti o grida. O essere remissivi. È piuttosto essere consapevoli che la politica non è onnipotente e deve conoscere i suoi limiti invalicabili. È avere contezza del fatto che ogni opinione merita rispetto. Che la cultura dell’arroganza e della prepotenza, benché mascherata da attitudine di illusorio decisionismo, non costruisce nulla.
Papa Francesco usa il termine “tenerezza”. Che evoca la capacità del politico di scorgere dietro ad ogni problema il profilo di una persona, con le sue fragilità e le sue attese. Sopratutto le “attese della povera gente”, per dirla con il Sindaco Giorgio La Pira. Tenerezza è prendere per mano le persone e le comunità e condurle oltre le nebbie e le paure di questo tempo difficile.
“Condivisione”, infine, è molto di più che ascoltare o far finta di ascoltare tutti.
È entrare in sintonia, assumere le sofferenze o le speranze delle persone e delle comunità come parte essenziale della propria missione. Anche quando, come scrive Francesco, i risultati non possono essere all’altezza delle attese.
Condivisione, per la politica, è anche “abitare le comunità. Sopratutto quelle non metropolitane: le valli, i paesi delle aree interne, la montagna. In una brutta parola: le tante periferie non solo in senso geografico. Territori che stanno subendo impoverimento socio-economico ma anche desertificazione istituzionale. Le Regioni sono lontane; lo Stato ancora di più e diventa sempre più centralista; le Province sono state private della loro personalità istituzionale; i Comuni piccoli e medi sono oggetto di una insensata (a mio parere) campagna per la loro eutanasia, come se la quantità di abitanti fosse l’unico parametro per la sopravvivenza delle antiche istituzioni della democrazia locale.
E i partiti sono diventati mediamente così leggeri da essere oggetti sconosciuti nei territori: appaiono solo attraverso i vecchi e nuovi media.
Pur ovviamente senza demonizzare o disconoscere il ruolo prezioso delle nuove tecnologie digitali, occorre tornare alla virtù politica della condivisione capillare, fisica (Covid permettendo), radicata.
Per questo chi si assume il compito di servire dentro le istituzioni municipali e locali e lo fa con generosità e serietà, va ringraziato e sostenuto.
È da qui, io penso, che si può ripartire per rifondare la buona politica. Anzi, è ora di ribadire con forza che le comunità locali sono “produttrici” di politica, non mere “consumatrici” di ciò che si congettura nei palazzi di Roma. O spettatrici difronte allo spettacolo reiterato dei partiti personali che nascono e muoiono come le meteore o delle “discese in campo” dei personaggi messianici del momento.
Del resto, come dice Marco Bentivogli, che considero una grande speranza per il futuro, non esiste nessun vertice che possa prescindere, alla lunga, da una buona Base. Prima o poi il castello di carta viene giù e con esso, se non stiamo attenti, la nostra democrazia, almeno nella sua concezione comunitaria e partecipata.