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Le grandi corporazioni sociali ed imprenditoriali faticano a indicare idee nuove e “di sistema”

La confusione che accompagna l’iniziativa degli “Stati Generali” non è un buon segno, comunque la si guardi.
Incide certo una spiccata e talvolta esorbitante attitudine al protagonismo mediatico del Presidente del Consiglio.
Ma traspare anche il timore dei partiti di maggioranza e di opposizione di vedersi scavalcati da una iniziativa che presuppongono di non “controllare”. Un timore che segnala debolezza e insicurezza.

Il Presidente Conte utilizza il metodo oggi purtroppo di moda. Non è il primo e non è il solo. Non sono sicuro che sarà l’ultimo. E men che meno sono sicuro che, come qualcuno sostiene, sia il “nuovo De Gasperi”.
D’altra parte, le forze politiche riscoprono il ruolo delle Istituzioni (e del Parlamento in particolare) dopo averle svuotate di senso riempiendole di rappresentanti improvvisati e dopo averle delegittimate con campagne demagogiche e decisioni che hanno solleticato l’anti politica e l’avversione del popolo agli istituti della democrazia rappresentativa. Come la riduzione del numero dei parlamentari motivata per “contenere le spese” e decisa con una improvvida modifica costituzionale priva di senso e slegata da ogni riflessione di riforma complessiva dell’ordinamento istituzionale.

Quando la politica era la “Politica”, gli Stati Generali (cioè la costruzione di un progetto per il Paese con il coinvolgimento delle sue componenti sociali ed economiche) non erano un evento mediatico eccezionale. Erano il metodo quotidiano della vita politico-istituzionale.
Le forze politiche non avevano nessun complesso di inferiorità rispetto alle idee e alle aspettative prospettate dalle così definite “menti illuminate” o dai vari portatori di interessi.
Il dialogo era costante, fisiologico, libero e rispettoso dei diversi ruoli.
La Politica si assumeva poi la responsabilità della sintesi e delle decisioni.
Oggi pare non sia più così.

Le grandi corporazioni sociali ed imprenditoriali faticano a indicare idee nuove e “di sistema”, ma non sono affatto aliene dalla tentazione di “insegnare” il mestiere a chi governa, piuttosto che dimostrare di saper fare il loro, di mestiere.
Infatti, la struttura produttiva del Paese sconta un grave deficit di innovazione (gli investimenti privati in ricerca e sviluppo sono tra i più bassi a livello europeo); di solidità finanziaria (poche famiglie e consorterie finanziarie sempre più ricche e imprese sempre più povere); di strategia internazionale (molte piccole e medie imprese che forniscono semilavorati ad imprese tedesche e di altri Paesi Esteri, ma poche aziende capaci di collocarsi al vertice della catena del valore); di competitività e di filiera (poca volontà di costruire vere reti di impresa e progetti comuni, capaci di attenuare il “nanismo” tipico dell’impresa italiana, anche nei settori di maggiore successo del Made in Italy, per non parlare del campo dei servizi e delle nuove tecnologie e poca voglia di crescere anche con acquisizioni a livello globale).

Tutte cose che solo in parte possono essere addebitate ai Governi ed alle politiche pubbliche.
Lo stesso sindacato, che giustamente rivendica un ruolo centrale, è tremendamente in ritardo – con poche lodevoli eccezioni, tra le quali quella di Marco Bentivogli – nel rapportarsi ai cambiamenti epocali del lavoro e della società.
Il Terzo Settore, evocato con lucidità e generoso impegno da Stefano Zamagni e dagli altri pensatori di una “nuova economia”, svolge un ruolo fondamentale nella tenuta del tessuto comunitario, ma non pare oggi capace di esprimere una forza di sistema ed un progetto unitario per il Paese.

Quanto alla politica, si nota una schizofrenia pericolosa.
Da un lato si gioca al piccolo cabotaggio: provvedimenti “erga omnes”, a fronte di una moltitudine smisurata di istanze, senza alcuna vera griglia di priorità.
Dall’altro si evoca la suggestione di una sorta di “Grande Piano Quinquennale”.
Questa schizofrenia lascia sguarnito il terreno vero della buona Politica, che non è né quello delle prestazioni “a là carte”, né quello del dirigismo statalista.
Molto più semplicemente (ma proficuamente) sarebbe quello del “governo” democratico dei processi.

Cosa che presuppone di esercitare – senza tante grancasse – il carisma dell’autorevolezza, ontologicamente tipico delle Pubbliche Istituzioni ed, assieme, di dimostrare consapevolezza dei “limiti” della funzione del Governo in una società complessa e matura.
Lo spazio fecondo per costruire una democrazia moderna (per noi Popolari dovrebbe essere pacifico) è proprio quello che colma il vuoto tra le due derive che oggi rischiano di portarci fuori rotta: la deriva di una politica che rincorre le svariate, convulse e mutevoli esigenze dei singoli e delle corporazioni costituite e la deriva di chi confonde la saggezza del “governo” con l’arroganza del “comando”.

Il senso di un nuovo (nuovo) “centro” e di una rielaborazione – senza ridicole presunzioni di eredità – della vicenda democristiana, sta tutto qui.