Pare che sia arrivato un “tempo tritatutto”. Un tempo che, assieme alle incrostazioni del Novecento e alle inique conseguenze del pensiero unico iper liberista, tende a demolire – oppure a svuotare di senso – principi, valori, istituzioni sociali e forme consolidate della nostra democrazia. Senza un disegno alternativo credibile, oltretutto. In questa congerie, che ne sarà della piccola barchetta della nostra Autonomia Speciale? È una domanda tutt’altro che peregrina e non riguarda questioni di conflitto tra parti politiche, ma di comunità: riguarda tutti. Non mancano segnali inquietanti. Mentre a Roma si discute e si litiga – in modo peraltro confuso e superficiale – sulla richiesta di alcune Regioni Ordinarie del Nord di poter avere forme speciali di autonomia in alcune materie, in attuazione di una norma costituzionale vigente ancora dal 2001, da noi sembra di assistere ad una fase di “stanchezza autonomistica”.Non mi riferisco qui al rischio che noi stessi rinunciamo di fatto alle nostre prerogative, allineandoci alle decisioni nazionali – questione in sé tutt’altro che marginale – ma a qualcosa di più profondo, che si agita nelle pieghe della comunità prima che nelle dinamiche della politica e delle Istituzioni. La nostra, infatti, non è una autonomia “concessa”, ma “riconosciuta”. Significa che preesisteva, nei suoi presupposti, al riconoscimento giuridico-formale: ci chiamiamo “Provincia” ma siamo o dovremmo essere una “Comunità Autonoma”. In questo senso, per noi, l’Autonomia è un dovere di coerenza con noi stessi prima che un diritto da esigere dallo Stato. E la costruzione giuridica – dallo Statuto alle Norme di Attuazione; dalle Leggi alle disposizioni amministrative – trova o dovrebbe trovare fondamento primo in una “costituzione materiale” che vive in simbiosi con la vita dei cittadini, delle comunità, dei corpi sociali, secondo il filo rosso di una idea di società e di un “comune sentire”.Questa è la vera ragione per la quale abbiamo resistito alla lunga stagione del centralismo statalista e a quella della ipotizzata secessione del Nord, nella quale eravamo considerati una sorta di appendice della costruenda Padania.È ancora così? Non possiamo non chiedercelo, ben oltre le questioni politiche di parte.Certo, viviamo anche noi in un tempo di radicali e rapidi cambiamenti culturali, antropologici, sociali e tecnologici. Ma non è che nel nostro passato sia stato tutto rose e fiori.Pensiamo al secondo dopoguerra, quando l’Autonomia è stata progettata e costruita.I nostri Padri Fondatori hanno dovuto affrontare il mare aperto senza grandi supporti e sostegni e – soprattutto – costruirsi una bussola per scegliere la rotta. Erano tempi duri, veramente duri. Il Trentino usciva da un dopoguerra devastante, con tassi di povertà e di emigrazione oggi impensabili. Con un apparato pubblico ancora tutto da costruire ed istituzioni economiche fragili e deboli. Bruno Kessler – assieme a tutta la straordinaria classe dirigente politica e tecnica di quel tempo – pensò subito alle necessità immediate e materiali, naturalmente. Ma pensò – nello stesso tempo ed anzi prima ancora – a qualcosa che di certo appariva allora piuttosto lontano dalle esigenze concrete del popolo.Pensò alla “cultura”. Pensiero che include tante cose: la scuola e la formazione professionale, i musei, la conoscenza in via generale. Vennero poi l’Università e gli Istituti di Ricerca.C’è un punto di questa storia che più di altri mi ha sempre colpito come cifra di una lungimiranza esemplare e – vorrei dire – profetica.Non si volle declinare la “conoscenza” in termini di sola “tecnologia”. Non vi fu nessuna accondiscendenza alla mitologia del “facciamo solo ciò che è concretamente utile subito”. Non a caso, ad esempio, l’Istituto Trentino di Cultura fu voluto come volano di una “conoscenza integrale”, dove la ricerca tecnologica si univa a quella umanistica: sociale, storica, religiosa.Questa profezia – se ancora ne siamo all’altezza – è la dote più grande che oggi il Trentino può valorizzare; il viatico più importante che può portare nel suo zaino di viaggio verso il futuro. In fondo, qual è il problema più drammatico che dobbiamo affrontare oggi se non la progressiva dissociazione tra le potenzialità della tecnologia e la fragilità dei presìdi etici, sociali, culturali?La nostra “anomalia” – che è la faccia necessaria e più esigente dell’Autonomia – sta tutta qui: far stare assieme ciò che altrove è invece antinomia, talvolta irriducibile. Locale e globale; tecnica e etica; sviluppo e ambiente; competizione e solidarietà; identità e apertura; tradizione e nuovi linguaggi; spinta al protagonismo individuale (favorita anche dalle nuove tecnologie della rete) e coscienza del bene comune.È solo in questa dimensione che una Comunità piccola e periferica come la nostra – stretta tra un Sudtirolo forte del suo collante etnico e il Lombardo-Veneto forte dei suoi sistemi metropolitani – può trovare la propria riconoscibile e peculiare strada di futuro e rinnovare la spinta propulsiva della sua Autonomia. Una strada che non si imbocca una volta per sempre, ma esige costante attenzione, coraggio, lungimiranza e impegno collettivo. Esige sopratutto che sia coltivata questa “profezia” dei Padri Fondatori.Ecco, se dovessi dire su cosa può fondarsi una qualche possibile pista di lavoro futuro, anche -ma non solo, anzi – per la politica, indicherei questa urgenza impellente: recuperare il carisma dell’Autonomia come opzione esigente di cultura, di “conoscenza integrale”, di consapevolezza responsabile e diffusa.Non sarà questione accattivante come quelle che sembrano oggi purtroppo più gettonate, ma ritengo che sia di gran lunga la più importante. Perché l’Autonomia Speciale o è anche tutto questo, oppure non è.