A prescindere da come finirà questa telenovela ormai insopportabile delle trattative per il Governo, il dato di fatto è che Salvini e Di Maio rappresentano comunque oggi la maggioranza degli italiani.
E i sondaggi recendi, per quel che contano, non sembrano indicare grossi mutamenti.
I due sono decisi ad allearsi, ora e in futuro. Del resto, i populismi, al di là delle diverse origini, fossero anche in parte di sinistra, subiscono reciproca fatale attrazione e, alla fine, sono inevitabilmente portati a dare corpo ad una destra illiberale, una destra “post democratica”.
E’ iniziata la via italica alla “democratura”, neologismo che ormai molti osservatori utilizzano per definire quei sistemi politici nei quali i meccanismi formali della democrazia, sempre meno amati e praticati, coesistano con leadership nazionaliste, prigioniere del “presentismo”.
Le stesse leadership sono inoltre sostenute da un consenso popolare frutto dell’illusorio scambio «meno democrazia contro più sicurezza e protezione» e della continua evocazione di un «nemico alle porte». Non a caso, si guarda con ammirazione alla Russia di Putin o all’Ungheria di Orban.
È abbastanza facile prevedere quali saranno i «nemici» aizzati alla pubblica opinione, come un drappo rosso davanti al toro. Sul fronte esterno, sarà l’Unione europea.
«Stiamo scrivendo la storia», ha detto Di Maio, con una iperbole demenziale e un deficit assoluto di pudore. Ma in un certo senso è vero: per la prima volta uno dei Paesi fondatori dell’Unione europea verrebbe guidato da una maggioranza sovranista, populista ed anti europea. Per la prima volta, l’Italia di Degasperi e di Spinelli si collocherebbe fuori dal solco europeo, in un limbo pericoloso e inquietante.
Sul fronte interno, i «nemici» saranno gli stranieri immigrati; le minoranze in genere; la cosiddetta «casta» (almeno quella della politica tradizionale, poiché invece, con le vere caste, quelle del potere immutabile, il rapporto è tutt’altro che conflittuale, anzi…).
Un possibile nemico evocato sarà anche il Quirinale, quando e se dovesse opporsi, in base alle sue prerogative costituzionali, a scelte incompatibili con il quadro dei vincoli finanziari o istituzionali.
A tutti questi «nemici» sarà addebitata la colpa di voler impedire la realizzazione delle promesse – irrealizzabili – con le quali Lega e M5S hanno vinto le elezioni. Uno scenario desolante e preoccupante, che porterà l’Italia su una rotta di marginalità in Europa e di impoverimento della già fragile intelaiatura civile, istituzionale e socio-economica.
Spetta ora alle culture e alle forze civili, sociali e politiche democratiche preparare una credibile alternativa a tutto questo. Ma dovrà essere su basi nuove e in una prospettiva di medio periodo. Nessuna congettura di tipo tradizionale potrà sconfiggere questa ondata, che pare avere oggi il vento in poppa. Potranno farlo solo l’umile e paziente ricostruzione della credibilità della democrazia e della politica; la reinterpretazione dei valori di comunità e solidarietà, fuori da ogni vuota liturgia retorica; il ritorno ad una «pedagogia» politica e civile, capace di «convincere» una società che rischia di diventare sempre più individualista, impaurita e refrattaria ad ogni idea di vincolo e di responsabilità. Un compito che non può essere solo dei politici.
Sarà un inverno, speriamo non troppo lungo, ma certo gelido, che andrà riscaldato con tanti fuochi, alimentati dal coraggio e dalla lungimiranza. Guai a spegnere i fuochi quando arriva il gelo. È solo in essi che una democrazia comunitaria potrà ritrovare il suo carisma e la sua profezia.
Questo scenario condizionerà anche le imminenti elezioni provinciali trentine, che oltretutto i vertici nazionali di Lega e Movimento 5 Stelle di certo non vorranno affrontare «facendosi reciprocamente del male», a pochi mesi dall’avvio del loro eventuale Governo.
Anche da noi, per il centro sinistra autonomista, si è aperta una stagione non banale. E, per il vero, non solo dal 4 marzo. Difendere e valorizzare ciò che di positivo la coalizione ha fatto è giusto e doveroso. Temo tuttavia che rivendicare la buona amministrazione non basterà per resistere all’onda.
Servirebbe, pur in extremis, una capacità generosa e corale di apertura e di rigenerazione.
Ma, almeno ad oggi, ciò che si nota come spirito prevalente è un mix fatto di arrocco difensivo, tattiche di posizionamento e mugugnante rassegnazione.
Come noto, non ho più ruoli politici che comportino la responsabilità di indicare soluzioni. Ma l’esperienza mi autorizza forse a dire che – a prescindere dalle decisioni che alla fine saranno adottate – se lo spirito prevalente è questo non si farà molta strada.