Ho avuto il piacere di partecipare presso la FBK ad un confronto sul futuro della ricerca in Intelligenza Artificiale, organizzato in onore di Olivero Stock, al quale meritoriamente la Provincia ha consegnato lunedì l’Aquila di San Venceslao.Confronto più che opportuno. E tuttavia, in questo tempo strano che ci è dato di vivere, la parola “futuro” pare sempre più associata alla parola “paura”. Paura della scienza, della tecnologia, della diversità, di un cambiamento di cui non si conosce l’approdo ma che si teme metta in discussione i piccoli grandi equilibri della vita quotidiana. La suggestione del futuro rischia di smarrire il suo carisma. E più la scienza e la tecnologia disvelano nuove potenzialità, più questa paura rischia di crescere e questo carisma di attenuarsi. Così si scaricano sugli “strumenti” tutte le ansie che derivano dalla percezione sempre più flebile dei “fini collettivi” e quasi si ritorna al dibattito antico: ha fatto bene o male Prometeo a rubare a Zeus il fuoco della conoscenza? Oppure si teme che nuovi Zeus si siano ripresi il fuoco e lo usino, attraverso arcani meccanismi, per controllare gli uomini.In realtà, la vera origine della paura non sta tanto nella forza delle tecnologie e nella loro pervasività, quanto piuttosto nell’intima coscienza della debolezza dell’uomo.Intendo, la debolezza della politica, che fatica ormai a guidare e regolare i processi. E intendo la incompiuta formazione di quel “nuovo umanesimo” del quale spesso parla Papa Francesco. Questa paura è tipica oggi di un Occidente che si scopre “vecchio e stanco”, alle prese con una crisi senza precedenti della propria democrazia rappresentativa, spiazzato dalle “post democrazie” dei nuovi sistemi geo politici emergenti, spaesato di fronte a poteri globali senza controllo sociale. C’è un filo inquietante che lega assieme crisi demografica; mutamenti dei paradigmi economici; tendenze individualistiche e sovraniste; ripiegamenti culturali; sfiducia se non ostilità verso la scienza; paura delle nuove tecnologie. Non è facile resistere; avere il coraggio di visioni di lungo periodo; tentare la rotta anche a costo di impopolarità. Non so se l’intuizione del Fondatore Bruno Kessler di tenere assieme, dentro l’ITC ora FBK, la ricerca tecnologica e quella umanistica (storica, sociale, religiosa) derivasse già allora dalla premonizione che prima o poi queste contraddizioni si sarebbero rivelate: fatto sta che, in ogni caso, oggi questa integrazione tra tecnologia e umanesimo costituisce l’unica via attraverso la quale la suggestione del futuro può recuperare il suo carisma presso il popolo. A ben vedere, è proprio su questo piano che il percorso di Oliviero Stock e di chi con lui ha lavorato si è dimostrato di straordinaria validità, perché ha testimoniato di possedere robusti presìdi culturali e solide basi etico-sociali. Le nuove frontiere dell’Intelligenza artificiale, infatti, non sono avulse rispetto all’idea di relazioni umane, di società, di democrazia, di economia che vogliamo costruire, a livello locale come a livello globale.Più forti sono gli strumenti della tecnologia, più forti devono essere i valori culturali, civili e sociali che supportano la vita delle persone e l’agire dei poteri. E più marcata deve essere la voglia di sperimentare attraverso l’intelligenza artificiale nuovi modi di fare comunità, democrazia, economia. In fondo è questo il senso del “laboratorio Trentino” e di una Autonomia Speciale che dagli anni sessanta ha deciso di mettere al centro dei propri investimenti finanziari e politici il tema della conoscenza e dunque della formazione e della ricerca. Non è stato un caso se la prima iniziativa accademica negli anni sessanta si è creata nel campo allora inesplorato della sociologia.
E neppure è stato un caso se poi si sono volute aprire le nuove piste nel campo della Intelligenza Artificiale e – più tardi – nei settori della biologia e delle scienze cognitive. Si è trattato di un modo per corrispondere al monito che Kessler era solito trasmettere: facciamo in modo che non si spenga l’inquietudine. Ovvero, per ricordare una bella espressione recentemente usata dal nostro Arcivescovo, un modo per seminare e non semplicemente custodire il raccolto. Non possiamo che esprimere l’augurio che si prosegua con determinazione sul solco tracciato. Sappiamo che per costruire ci vogliono anni e per demolire basta poco. Basta che sorga il dubbio che la ricerca non è più nel cuore della politica; che la consapevolezza dell’investire nel lungo periodo ceda il passo alla frenesia delle ricadute immediate (che devono esserci e in parte ci sono, ma che possono arrivare solo se la ricerca continua ad essere orientata ad un futuro magari non vicino); che si attenui la proiezione internazionale; che Università e Fondazioni di Ricerca tornino a erigere quei muri che solo in parte sono stati abbattuti; che si rinunci all’ambizione di attrarre i migliori, solo per fare qualche esempio. Sono certo che questa percezione non si farà strada: tuttavia occorre non solo vigilare ma anche essere vicini e solidali con chi deve assumere le decisioni pubbliche, perché sarà sempre più oggettivamente difficile resistere alla tentazione della comoda mediocrità e al rischio di confondere così – per dirla con Mahler – il fuoco con le ceneri. E occorre che si rafforzi anche una “pedagogia” dell’innovazione.Oliviero Stock ha affermato che i ricercatori hanno due padroni, come Arlecchino: chi mette i soldi e la comunità scientifica internazionale. Giusto. Ma forse hanno anche un terzo padrone: la comunità dei cittadini. Essa va aiutata ad accompagnare, rispettare, conoscere, vorrei dire ad amare la valenza anche civile – non solo tecnica – della loro vocazione al futuro, ad esplorare terre nuove. Per questo, anche dopo la conclusione della loro carriera formale nel nostro sistema della ricerca, persone profetiche come Oliviero Stock continuano ad avere un grande ruolo in una Comunità Autonoma che non può perdere l’ambizione ed il senso di sentirsi Regione Europea della Conoscenza.