A poco tempo ormai dalla fine della Legislatura, si impongono scelte chiare e coraggiose.
L’Italia si è rimessa in moto, a merito dei Governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni; con il concorso fondamentale della politica monetaria europea guidata da Mario Draghi; sopratutto attraverso il sacrificio e la tenacia delle imprese e delle famiglie italiane.
Ma la strada è ancora in salita. Gli scenari internazionali non aiutano e le fragilità del nostro paese pesano ancora sul nostro futuro e in modo particolare su quello dei giovani e delle fasce sociali meno tutelate.
I rischi per la tenuta democratica e civile vengono accresciuti dalle previsioni di un’instabilità politica che ci può rendere più esposti e vulnerabili come sistema paese.
Sono a tutti evidenti i limiti della conduzione politica che ha accompagnato questi ultimi anni: limiti che hanno la propria radice nella travagliata e non ancora compiuta transizione politica e istituzionale; nella precarietà del sistema della rappresentanza; nell’inadeguata funzionalità delle istituzioni.
Non si intravede ancora l’approdo definitivo di questo difficile cammino.
Scenari nuovi e inediti, anche in rapporto alla dimensione europea, dovranno necessariamente dispiegarsi nel prossimo futuro, a valle di questa lunga stagione politica connotata da semplificazioni e forzature che hanno allontanato la comunità dalle sue istituzioni e dissociato la politica dalle sue matrici culturali e valoriali.
Tuttavia, come insegnava Aldo Moro, le fasi della politica non si possono saltare.
E ciò pone tutti di fronte alle proprie peculiari responsabilità.
Il paese ha bisogno di un suo “centro”, inteso come punto di riferimento per il bene comune; strumento per la difficile costruzione di un disegno di futuro collettivo; stimolo e sostegno per le dinamiche di unificazione di una comunità sempre più attratta nella spirale delle frammentazioni e delle solitudini.
Quando si dice “popolarismo”, si dice questo: una cultura comunitaria, non un’ideologia.
Oggi nessuno può arrogarsi da solo questa eredità, che risulta in parte soggetta a diaspora, in parte travolta dai cambiamenti antropologici e culturali della società italiana.
Ciò non di meno, una riproposizione aggiornata di questa cultura è urgente e necessaria nell’interesse del paese.
Essa può costituire – al di là della sterile preventiva contabilità elettorale dei sondaggi – uno dei pilastri attorno ai quali costruire una linea efficace di resistenza contro le derive della risorgente destra e dell’emergente qualunquismo anti sistema dei grillini.
La presenza di una lista che si richiami esplicitamene a questa cultura in una coalizione elettorale con il Pd non è un favore a questo partito – che dopo la stagione della pretesa autosufficienza scopre oggi il valore della coalizione – ma serve al paese.
Bisogna proporla pensando all’oggi, ma sopratutto al prossimo futuro.
E per questo non deve essere il frutto di un calcolo, ma di una generosità e di una scommessa ambiziosa ed esigente.
Una lista che non sia la “dependance” di nessuno; che vada oltre i ceti dirigenti attuali; che sia visibile per proposte chiare, nette, coerenti con l’indicazione di Papa Francesco e di molti pensatori di matrice anche laica verso un “nuovo umanesimo”.
Una lista che si proponga di rinnovare la democrazia rappresentativa e di riconnetterla con le aspirazioni insopprimibili alla giustizia sociale.
Che voglia non solo eleggere un gruppo di parlamentari, ma si proponga un progetto politico di lungo periodo.
E che abbia un nome non insipido ed equivoco (come “moderati”); una leadership collettiva; un “capo politico”, come richiesto dalla legge elettorale, capace di mobilitare energie e pensiero al di fuori del Palazzo.
Se questo è il tentativo – pur consapevoli delle difficoltà, dei mezzi inesistenti, del tempo ridotto a disposizione e anche dei passati diversi percorsi dei possibili compagni di strada – noi ci siamo.