Discussione della Relazione all’Assemblea sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali e sull’attuazione degli statuti speciali, approvata dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali.
Desidero dare atto, innanzitutto, del lavoro svolto dalla Commissione, di cui riconosco l’importanza, su molti aspetti specifici che anche condivido: il tema dell’integrazione della Commissione, il tema della riconfigurazione del sistema delle conferenze, il tema tutt’ora aperto di quella che, con una espressione molto brutta, viene definita “area vasta”.
C’è, però, un tema di fondo, quello che interessa di più e che nasce da una domanda: qual è l’idea di Stato che abbiamo e, prima ancora, quale è l’idea di società?
Perché, dietro ad una idea delle istituzioni, vi è un’idea di società: vogliamo, cioè, una società plurale, articolata, oppure verticalizzata e omologata?
La crisi di questi anni ha colpito duro un sistema istituzionale italiano già fragile, composto com’è di un mix tra uno statalismo mai superato, un municipalismo che spesso vede le singole municipalità lasciate a se stesse e un regionalismo mai compiutamente realizzato ed oggi in forte crisi di identità e anche, spesso, di efficienza.
C’è il rischio che la risposta a tutto questo nasca da una visione fondata sull’individualismo, sul rifiuto di ogni vincolo comunitario, sul superamento di ogni mediazione, sia essa sociale o, appunto, istituzionale e territoriale.
Questo è un grande tema che dovrà essere affrontato senz’altro nella nuova legislatura e che mi auguro porti al rilancio, in termini anche nuovi, di una idea autonomistica della nostra Repubblica.
Vorrei soffermarmi sul punto delle regioni speciali, che riguarda la seconda parte della Relazione.
Queste particolari forme istituzionali sono spesso demonizzate e non viste, invece, come esperienze vitali. Si possono dare giudizi positivi o negativi sul singolo comportamento, ma credo che vada rivendicata questa esperienza come una forma di laboratorio istituzionale utile per l’intero sistema.
E credo che vada ricordato a chi, anche in questi giorni, propone delle soluzioni totalmente inaccettabili che comunque, l’autonomia,- e l’autonomia speciale in maniera particolare – appartiene alle comunità, non agli enti che la amministrano.
Le autonomie speciali interpretano storie, esperienze di comunità, talvolta, anche vicende intricate dal punto di vista dei rapporti internazionali.
Per quanto riguarda la Relazione, su questo punto, ravviso un elemento molto critico che voglio mettere in evidenza: traspare, qua e là, l’idea di armonizzare e omologare le regioni a statuto speciale. A me pare che omologare tra di loro le specialità sia un ossimoro, perché le specialità sono una storia particolare e ognuna risponde a delle vicende particolari.
In maniera specifica, vorrei sottolineare tre punti.
In primo luogo, le Commissioni paritetiche: io ho l’onore di presiederne una, quella che riguarda i rapporti fra lo Stato e la mia regione. La nostra Commissione ha fatto 150 norme di attuazione dal 1972 in poi e, dunque, voglio rivendicare che ogni esperienza di Commissione paritetica rappresenta una storia a sé, perché dà forma a sistemi pattizi assolutamente speciali e particolari, con procedure anche peculiari.
In secondo luogo, gli ordinamenti finanziari. La finanza non è neutra rispetto al quadro delle competenze e delle funzioni e, dunque, siccome la diversità delle competenze e delle funzioni è l’essenza stessa, l’ossatura di ogni specialità, va da sé che la diversità degli ordinamenti finanziari, la loro peculiarità non può essere sostituita da modelli omologati.
In terzo luogo, la revisione degli Statuti speciali. È giusto definire procedure più chiare, più trasparenti a questo riguardo, nel rispetto, naturalmente, sempre del principio inviolabile della loro natura pattizia.
Tuttavia io credo che sia assolutamente sbagliato porsi l’obiettivo di una loro – anche qui torna questo concetto – armonizzazione.
Io penso che l’Italia abbia bisogno di diversificare, non di omologare, perché solamente così si possono liberare e non soffocare le energie positive dei territori, scommettendo, ancora, con fiducia sulla loro autonomia e lavorando, piuttosto, ad uno Stato centrale sobrio e non barocco, autorevole e non autoritario o invasivo.
Per queste ragioni, desidero che sia messo a verbale il mio dissenso su questi punti della Relazione e formulo l’auspicio che nel prossimo futuro, su questi temi, possa essere riaperta una discussione più approfondita e più organica.