In occasione del centenario della nascita di Aldo Moro, molte iniziative e alcuni pregevoli contributi editoriali ci hanno stimolato a riflettere sul pensiero e sulla testimonianza del grande statista democristiano.
Tra i molti spunti a tutt’oggi fondamentali, vorrei cogliere due questioni di stringente e particolare attualità.
La prima è legata alla crisi della democrazia, tema prioritario di questo nostro tempo.
Rileggere Moro aiuta a capire che essa non è primariamente crisi di efficienza, ma di “senso”.
Scriveva Aldo Moro sulla rivista Studium negli anni quaranta: “Lo Stato è, nella sua essenza, società che si svolge nella storia, attuando il suo ideale di giustizia”. E nello stesso periodo così scriveva su La Rassegna: “È doveroso riconoscere che tra libertà e giustizia non vi è irrimediabile antitesi, ma solo conflitto, sia pure angoscioso, di precedenze e che alla democrazia non solo può, ma deve essere data una qualificazione che ne completi il significato”.
Traspare con nettezza un insopprimibile respiro etico che anima l’idea dello Stato. In altre parole, emerge un “senso” della democrazia.
Questione di attualità drammatica, a fronte dello scenario europeo e occidentale.
Larga parte della popolazione incomincia a ritenere che “democrazia” e “benessere diffuso” non siano più due facce della stessa medaglia.
Disuguaglianze crescenti, erosione delle condizioni di vita del ceto medio, paralisi della mobilità sociale, spiazzamento delle speranze delle nuove generazioni stanno cambiando i connotati di quel compromesso nobile tra Stato liberale e Stato sociale che ha costituito l’architrave della democrazia europea dal secondo dopoguerra.
Più forte ancora del nemico esterno, per la nostra democrazia, appare il rischio del suo svuotamento interno, della perdita del suo senso comunitario e sociale.
La democrazia delle sole regole è la democrazia dei potenti, che si dissocia da altri concetti ad essa coessenziali, nella filosofia di Moro: liberazione da tutto ciò che non consente il dispiegarsi della potenzialità delle persone e inquietudine verso sempre più esigenti evoluzioni della condizione umana.
Ai cattolici, del resto, è sempre stato caro il principio della “scelta preferenziale per i poveri”, come si diceva una volta. Oggi Papa Francesco parla, non a caso, di nuovo umanesimo e di ripartenza “dalle periferie”.
Rileggere Moro ci aiuta a capire che la risposta principale alla crisi della democrazia non sta nella tentazione tecnocratica e men che meno nella suggestione populista.
Sta piuttosto nella capacità di farsi carico della lettura dei processi sociali e nella attitudine a corrispondere alle nuove “attese della povera gente”.
Certo, lo sappiamo, la stagione delle ideologie ha fatto il suo tempo e la configurazione della dinamica sociale è radicalmente cambiata.
Ma non è finita – né a livello mondiale, né in Europa – la lunga e faticosa marcia di chi non ha voce, diritti, potere, speranza, opportunità, garanzie.
Nasce da qui l’imperativo morale, prima che politico, per i cattolici democratici, di rifiutare l’appellativo di “moderati” e di sentirsi investiti piuttosto dal vento dell’inquietudine.
La seconda questione, correlata alla prima, di enorme portata e di impellente attualità riguarda la crisi della Politica.
Moro ci suggerisce che essa non è crisi di capacità e di velocità, ma di rappresentanza e dunque di consenso consapevole e autentico.
Ricordiamo il grande discorso ai Gruppi Parlamentari della DC del 28 febbraio 1978.Vi si coglie l’essenza di una visione della politica come sforzo di governo dei passaggi complessi, tentativo fino all’estremo di farsi carico delle ragioni degli interlocutori, ricerca di un consenso anche sofferto ma vero, non alterato dalla scorciatoia della tifoseria.
Oggi il contesto è radicalmente cambiato, così come inediti sono i meccanismi della comunicazione e dunque della formazione del consenso.
Ma rileggere Moro ci fa capire che senza Politica e senza un consenso che sia frutto di convincimento e di responsabilità condivisa non si possono fare riforme durature e profonde che – pur nella salutare dialettica delle idee – uniscano la comunità sul sentiero del futuro.
Le difficoltà di Matteo Renzi in questa fase derivano proprio da qui. Sono figlie della mancanza di una infrastruttura politica e sociale capace di costruire consenso vero e duraturo.
E così le riforme appaiono fredde e lontane dalla vita delle persone e le scelte – anche quelle giuste – dividono il Paese (cosa diversa dal ceto politico) non tra innovatori e conservatori, ma tra inclusi ed esclusi dalla loro narrazione.
In realtà, anche la durezza della disputa sul referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre deriva da questo deficit.
Rileggere Moro deve aiutarci anche in questo passaggio.
Non certo per strumentalizzare la sua memoria e la sua testimonianza per il SI o per il NO, perché chi utilizzasse artifici di tale genere offenderebbe la figura di Moro, patrimonio della Nazione.
Quanto piuttosto per adeguare la libera scelta di ciascuno all’approccio moroteo.
Chi come il sottoscritto sosterrà il SI – perché convinto che altrimenti il Paese rischia una involuzione carica di incognite molto più forti di quelle che la Riforma a sua volta produrrebbe – deve sentirsi obbligato a farsi carico di quelle ragioni del NO che sono alimentate dalla preoccupazione di una democrazia senza passione e senza condivisione. Una preoccupazione che magari non può essere affatto suffragata dalla citazione di un punto della Riforma, ma che esiste e come tale va considerata.
La chiarezza della scelta, responsabile e trasparente, non deve compromettere la capacità di comprendere il disagio e l’inquietudine di una parte non marginale della opinione pubblica.
Questo approccio dovrebbe ispirare anche la discussione sulla eventuale modifica dell’Italicum.
Quella legge presupponeva un processo politico che non si è compiuto.
Prevedere un premio di maggioranza alla lista vincente al primo turno – se ottiene almeno il 40 per cento – e in ogni caso al ballottaggio tra le prime due, potrà certo anche essere una forzatura: non era la legge elettorale che noi avremmo voluto e abbiamo provato in mille modi a richiedere una soluzione diversa.
La legge presupponeva tuttavia un processo politico che consentisse di offrire agli elettori infrastrutture politiche adatte a coglierne la sfida.
Non lo si è fatto. Il PD ha deciso di non farlo, convinto della sua autosufficienza.
Adesso si cerca di ovviare alla situazione con varie congetture di modifica del meccanismo elettorale.
Si sente parlare di premio di coalizione. Bene, ma le coalizioni non nascono sugli alberi. Nascono dal confronto politico, dalla compatibilità delle ispirazioni che si intendono associare, dal reciproco riconoscimento. E – possibilmente – da una visione condivisa del futuro, al di là della pur comprensibile paura di una vittoria grillina.
Anche difronte alla questione della legge elettorale, dunque, conviene rileggere Moro e – ritengo – Roberto Ruffilli, per non cacciarsi nel vicolo cieco del puro tatticismo.
Le regole sono importanti, ma alla fine non si sfugge al primato della politica.
Già, la politica. Chi l’ha vista?