Forse non abbiamo abbastanza consapevolezza della stagione difficile che attende nei prossimi anni tutta l’Europa. Leggiamo i bollettini dell’Istat con lo stesso spirito col quale gli antichi consultavano il volo degli uccelli. Eppure dovremmo ormai averlo capito: non ci sarà nessuna magica accelerazione della crescita in Europa, per la semplice ragione che è cambiato il paradigma globale. I nodi demografici, sociali e geopolitici formatisi durante i decenni precedenti sono venuti al pettine e non si scioglieranno tanto facilmente.
E intanto si estende la crisi delle forme democratiche tradizionali: una crescente parte della popolazione europea incomincia a non credere più all’idea che democrazia e benessere diffuso debbano necessariamente coincidere. Due risposte sembrano prevalere, sovente intrecciate: la tentazione tecnocratica e la semplificazione populista. Ma hanno il fiato corto e non riusciranno alla lunga a farci ritrovare il bandolo della matassa. Il passaggio stretto resta piuttosto quello del “realismo visionario”. Che – in altre parole e per stare alla nostra storia locale – è quanto evocava Bruno Kessler quando parlava di “utopia tecnicamente fondata”. Trento e il Trentino possono essere importanti laboratori in questo senso. Penso a tre sfide – tra le tante – che il nostro Paese sta cercando di affrontare. La prima. Il Governo Renzi presenterà tra qualche giorno il progetto “industria 4.0”. Sarà un piano organico per riproporre una nuova idea del manifatturiero, capace di resistere alla competizione globale e di evitare il declino definitivo del settore secondario. Gli investimenti decennali in formazione, ricerca e innovazione fanno del Trentino un naturale interlocutore di questo progetto. Potremmo candidarci a interpretare questo progetto – al quale sta lavorando con grande competenza il Ministro Calenda – in una area a carattere non metropolitano, con un sistema di piccola impresa diffusa e radicata. La seconda. Expo 2016 ha definito una scommessa ambiziosa attorno alla filiera “agricoltura, ambiente, salute, biodiversità”. A questa filiera risulta naturale associare un’altra filiera: “cultura, qualità della vita, turismo”. Sono due filiere molto legate alla realtà del Trentino: possiamo riconfermarci in prima linea ed accrescere la nostra reputazione, già molto buona e dunque la nostra attrattività e la nostra capacità di produrre ricchezza collettiva a partire da questi nostri talenti. La terza. Ormai anche gli osservatori più attenti ai processi del mercato riconoscono che senza “spirito di comunità” non ci potrà essere nessuna dinamica duratura di sviluppo economico. Per riprendere il sentiero dello sviluppo integrale (misurabile col PIL ma non solo col PIL) occorre che torni la fiducia nel futuro. Ma una società impaurita, dispersa in mille individualismi rancorosi e litigiosi, alla perenne ricerca del nemico – di solito individuato in chi è diverso per lingua, costumi, religione o colore della pelle – e con i propri rapporti interni destrutturati e lacerati non potrà mai ricostruire fiducia. Il Trentino conserva ancora un forte spirito di comunità: è la sua carta migliore per essere un territorio che elabora una nuova via di coesione democratica, oltre le secche della crisi di rappresentanza che sta mettendo a rischio la tenuta delle istituzioni in mezza Europa. E di questo, tra l’altro, dovremmo discutere in primo luogo mentre iniziamo a progettare il nostro nuovo Statuto di Autonomia. Nel quadro di queste sfide, ci si attende molto dalle città. Da Trento in particolare. Anche per questo mi sono permesso di auspicare – senza alcuna interferenza che non mi compete – che l’annunciata verifica di maggioranza al Comune di Trento si svolga alzando lo sguardo oltre la siepe dei presunti regolamenti di conti, circa i quali i gossip quotidiani (lontani dalle intenzioni, ne sono certo) l’hanno fatta anche fin troppo da padroni in questi ultimi mesi. Se il centro sinistra non vuole suicidarsi in Trentino – e non solo a Trento – sono certo che vorrà lavorare piuttosto in questa prospettiva.