Avvenimenti internazionali e fatti locali – con intensità e drammaticità per nostra fortuna radicalmente diverse – ci mettono di fronte ad una delle questioni cruciali del nostro tempo: quanta parte della nostra libertà e della nostra consolidata cultura dei diritti civili siamo disposti a sacrificare sull’altare di una maggiore sicurezza (o di una aspettativa di maggiore sicurezza) contro la minaccia del terrorismo? Guardiamo alla Turchia e alla ritorsione liberticida messa in campo da Erdogan dopo il tentato – e misterioso – golpe.
La Turchia è paese della NATO, anche se peraltro fino all’altro ieri sosteneva militarmente e finanziava attraverso il commercio clandestino del petrolio le milizie del Califfato. Essa garantisce all’Europa – in forza di un accordo controverso e discutibile – il blocco della moltitudine di disperati alla ricerca di sicurezza se non di sopravvivenza. Basta questo per limitare a qualche rimbrotto di facciata la reazione europea a queste progressive limitazioni delle libertà in un Paese di cui si discute ancora il possibile futuro ingresso nell’Unione? Oppure guardiamo alla sponda sud del Mediterraneo. Ci va bene che in Egitto il regime – al potere dopo un colpo di Stato militare col quale ha rovesciato il governo islamista legittimamente eletto – possa torturare e far scomparire centinaia di persone – tra le quali il giovane ricercatore italiano Giulio Regeni – purché tenga a bada i gruppi islamici più radicali? Mi chiedo: che messaggio mandiamo così alle nuove generazioni dei paesi arabi? Se non esiste una terza via democratica tra regimi totalitari e fondamentalismo islamico, come possiamo pensare che esse non finiscano con il decidere che tutto sommato è preferibile il secondo ai primi? E come può incidere tutto questo sui pochi – rari – Paesi dell’area araba che stanno invece faticosamente e coraggiosamente cercando di costruire la propria via democratica, come ad esempio la Tunisia? Una riflessione meritano poi alcune vicende più nostrane. Cito per esempio la spinosa vicenda dell’introduzione nell’ordinamento giuridico italiano del reato di tortura. Non so quanti lettori siano a conoscenza del fatto che in Italia questo reato non è neppure previsto, in quanto tale, dal codice penale. Da molto tempo, giustamente, diverse organizzazioni internazionali ed europee sollecitano il Parlamento a provvedere, cosa che da anni quasi tutti i Paesi occidentali hanno fatto. Negli ultimi giorni, il Governo ha disposto un’ulteriore pausa di riflessione nella approvazione della proposta di legge che sanerebbe questa carenza: avrà certamente le sue ragioni. Non escludo che il testo in discussione richieda miglioramenti. Ma ciò che preoccupa sono le prese di posizione di alcune organizzazioni sindacali dei poliziotti e soprattutto le molte osservazioni che si leggono sui social da parte di cittadini. E più ancora delle valutazioni, preoccupa la cultura che da esse traspare. Qualcuno ritiene addirittura – ho notato – che con l’introduzione del reato di tortura i poliziotti non sarebbero più in grado di garantire l’ordine e la sicurezza nel quartiere della Portela a Trento. Ma siamo impazziti? Ci rendiamo conto di ciò che si afferma, specialmente se si rivestono funzioni pubbliche? Ecco: mi pare giusto richiamare la questione di fondo. Quanta parte della nostra libertà e della nostra democrazia siamo disposti a immolare sull’altare della sicurezza? O meglio: della aspettativa di sicurezza? Siamo sicuri che una società che si rinchiude nella paura, che pone in dubbio la inviolabilità della sua civiltà giuridica, che mette tra parentesi il suo percorso democratico è una società più sicura? La storia insegna che così non è. Qualcuno dovrà pur dirlo con chiarezza. Siamo alla ricerca di una mitologia della sicurezza anziché esigere le vere condizioni in base alla quali si può – e si deve – essere veramente sicuri. Noi europei non siamo capaci di mettere assieme una sorta di FBI e di unificare i nostri apparati militari e di intelligence; neppure riusciamo a coordinare veramente le nostre politiche di gestione dell’emergenza migratoria; sui quadranti di crisi interveniamo a briglia sciolta – normalmente facendo casino – come è successo in Libia, in Iraq, in Siria e in mezza Africa; in Italia da anni riduciamo – diciamolo pure – gli stanziamenti per il comparto della sicurezza e a fronte di tutto ciò rischiamo invece di essere propensi ad accettare derive autoritarie e riteniamo preferibile che non sia previsto in Italia il reato di tortura perché «non si sa mai…». Questo accenno (per carità, per ora nulla di più) di cedimento strutturale dei veri valori europei e occidentali rischia di dimostrare che nella lunga e difficile gara tra noi e il Califfo, il prologo lo sta vincendo il Califfo. Perché inizia a corrodere la saldezza delle nostre convinzioni, della nostra cultura, della nostra civiltà giuridica. Vale a dire, che inizia a corrodere la nostra identità e la nostra vera forza. La colpa sarà anche della inettitudine delle leadership, certo. Ma non minore è la responsabilità dei cattivi maestri che – per cinismo interessato – illudono il popolo con la menzogna che, appunto, vale la pena perdere un po’ di libertà (vera) per aspirare ad un po’ di sicurezza (fittizia).