Care amiche e cari amici, illustri ospiti,
ciò che preoccupa e amareggia non sono le polemiche, gli equivoci e le contraddizioni che hanno accompagnato questo congresso. E neppure qualche deficit di riconoscenza, che pure non mi lascia indifferente sul piano della esperienza umana: sappiamo che essa non è una categoria della politica, o almeno non è tra quelle obbligatorie.
No. Ciò che preoccupa e’ piuttosto l’enorme scarto tra portata radicale delle sfide da un lato e capacità di pensiero, tensione ideale, spinta innovativa dall’altra.
Ciò che amareggia e’ il sapore amaro di una occasione persa; l’idea di un ciclo che forse si chiude. E non dico il ciclo delle persone, ma quello di un progetto.
Lo confesso: ho coltivato il sogno che questo periodo di declino ci potesse spingere, tutti assieme, ad un salto di qualità; ad essere i primi – come è stato in passato – a cogliere i segni dei tempi e a corrispondervi con coraggio e apertura.
Ho coltivato il sogno che fosse possibile di nuovo, come negli anni novanta, scommettere sulla evoluzione di un partito e non sul suo arroccamento, per cambiare senza disperdere un patrimonio.
Per aprire noi un ciclo, anziché subirlo; per non essere resi marginali dalla nostra stessa incapacità di capire ciò che accade; dalla nostra arrogante presunzione che sia la società a doversi adeguare a noi e non invece noi a dover capire, appunto, i segni dei tempi.
Non è stato così. Non sarà così. Si è voluto pervicacemente che così non sia.
Difficile capirne le vere ragioni. Impossibile farsene una ragione.
Care amiche e cari amici,
ciò che sta cambiando rapidamente intorno a noi e’ qualcosa di molto più profondo e irreversibile di quella che noi chiamiamo crisi economica e che ci illudiamo di veder superata scrutando i listini delle Borse o gli zero virgola dell’Istat.
Sta cambiando la democrazia. Scricchiola la sua forma rappresentativa; il perimetro della sua sovranità non coincide con il campo di azione dei poteri veri; gran parte della popolazione europea e’ convinta che democrazia e benessere diffuso non siano più un binomio scontato; cresce la disponibilità a barattare spazi di libertà e di partecipazione in cambio di sicurezza fisica ed economica; su questo si innesca la tendenza ad una feroce verticalizzazione del potere da parte di Stati Nazionali, convinti di recuperare così la perdita di autorevolezza.
Sta cambiando l’assetto del pianeta. Non ci sono più le vecchie centralità attorno alle quali si era stabilizzato per decenni l’equilibrio economico e militare. Si aggrava lo spread demografico tra una Europa sempre più vecchia e i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. I processi migratori, che noi ancora ci ostiniamo a vivere solo come emergenza, sono ormai strutturali.
Il cambiamento climatico segnala una uso sbilanciato ed iniquo delle risorse ambientali.
Tecnologie sempre più potenti – prive di un adeguato presidio culturale e morale – stanno cambiando la percezione dello spazio e del tempo, ponendo le persone di fronte a nuove opportunità ma anche a enormi rischi e palesano fragilità antropologiche di portata enorme.
La nostra piccola Comunità trentina non è e non sarà immune da questi processi.
In un quadro come questo, pensare che i pericoli per la nostra Autonomia Speciale derivino solo dal Governo di Roma e’ come scambiare la luna col dito che la indica.
Sono i pilastri fondanti della costruzione autonomistica ad essere scossi oggi con una forza inaudita: è la costituzione materiale – e cioè il modo di essere e di agire della nostra comunità, i suoi principi, le sue regole non scritte, i suoi valori – a subire oggi uno stress micidiale.
È l’emergere prepotente dei diritti individuali, spesso dissociati dal senso della comunità, a rendere poco sicure oggi le nostre fondamenta costruite invece sul primato dei diritti collettivi e sulla rete dei corpi intermedi e delle micro autonomie.
È la forza avvolgente delle economie di scala e delle dimensioni ormai globali dei fenomeni e delle regole che mette in discussione il riferimento per noi centrale al territorio, alla prossimità, alle reti corte di relazione e di solidarietà. Le emergenze le vediamo ogni giorno: dal credito cooperativo al sistema delle imprese del territorio; dalla questione dei servizi in periferia, alla difficoltà di valorizzazione locale dei talenti giovanili.
Come pensiamo che la politica possa guidare la comunità attraverso questi passaggi carichi di incognite e di pericoli, senza che il desiderio – come canta Guccini – diventi nostalgia? E senza che il futuro sia però arido di valori comunitari?
È questa la domanda centrale, anche – in verità – di questo nostro congresso.
Perché è questa funzione guida, non di comando ne’ di semplice ascolto, che la politica deve recuperare, per tenere assieme una comunità e condurla per mano oltre le nebbie di questo tempo.
Diceva il grande Nino Andreatta che “il riscatto della politica avviene quando si interpreta la comunità.” E aggiungeva che “La giustificazione della lotta tra i partiti e’ soltanto quella di arrivare a interpretare la collettività, che è’ il momento universale della politica”.
Questo dovere morale e civile riguarda tutti, anche noi.
E dobbiamo sapere che non esistono scorciatoie di comodo.
Non ci aiuterà il populismo facilone e ammiccante.
Non ci aiuterà lisciare il pelo di un civismo che spesso nasconde la voglia di non scegliere e spesso quella mascherare alternative politiche a noi e alla nostra coalizione.
Non ci aiuterà far finta di credere che tanti localismi messi in fila, magari attorno a egoismi irragionevoli, possano comporre un disegno di bene comune.
Non ci aiuteranno l’orgoglio gridato o le sicurezze proclamate, forti nei toni, fragili nella sostanza.
Non ci aiuterà il solo esercizio del potere amministrativo e men che meno la sua forma patologica che io chiamo “governismo”, specialmente se teniamo presente che, come qualcuno ha detto, “governare non è asfaltare”.
No. Non sarà attraverso queste facili scorciatoie – oggi piuttosto in auge – che riusciremo a traguardare questa fase travagliata e perigliosa.
L’unica strada – in salita ma è l’unica – passa per la coraggiosa umiltà del pensiero; il rischio della visione di lungo periodo; la sincerità nel distinguere di fronte al popolo le mete possibili dalle avventure e il bene comune dalle pretese ingiuste.
Essere autonomi, anche per la politica, comporta una fatica in più: la fatica dell’inquietudine, come ammoniva il nostro maestro Bruno Kessler.
Del resto, sappiamo bene che Trentino muore di banalità, mentre vive di sfide alte ed esigenti, che la politica ha il dovere di rendere chiare ai cittadini, incominciando dalla madre di tutte le sfide: i trentini vogliono ancora essere autonomi? Vogliono ancora essere speciali? Sono disposti a faticare, a rischiare, a giocare molto di loro stessi su questo?
Abbiamo bisogno di un progetto culturale forte, che aggiorni i pilastri fondativi della nostra costituzione materiale e ricomponga così la distanza che oggi si coglie tra la scommessa autonomistica e la vita, il cuore, la mente, i sogni o gli incubi di futuro del nostro popolo. Perché l’Autonomia non è solo un insieme di norme e di risorse finanziarie: è un progetto di comunità: una comunità autonoma, competitiva, moderna, ma prima di tutto “comunità”. Oggi più che mai, essa ha bisogno di perseguire mete ambiziose.
Con la norma di salvaguardia – miracolosamente fatta inserire dalla nostra delegazione regionale al Senato nella riforma costituzionale ( saluto e ringrazio in modo particolare Vittorio Fravezzi ) siamo sostanzialmente diventati una sorta di Area Protetta dei valori autonomistici in un Paese sempre più centralista.
Abbiamo il dovere di cogliere questa occasione non per guardarci l’ombelico ma per elaborare un modello di convivenza, di coesione sociale, di sviluppo economico sostenibile e di democrazia partecipata ed efficiente, che sia in controtendenza rispetto alle ricette di chi ancora non ha capito che la grande crisi non era solo finanziaria ma
anche valoriale; che senza forti legami sociali, senza equilibri, senza principi di condivisione, senza il rispetto delle persone e dei loro talenti, senza vera accoglienza dei nuovi italiani non ci saranno ne’ ricchezza ne’ felicità diffuse, ma solamente un inesorabile triste declino.
Il nostro progetto autonomistico – dalla gestione del quotidiano fino alla proposta del Terzo Statuto – deve essere pensato, declinato e vissuto come risposta a questa esigenza di nuovo umanesimo e di ripartenza dalle periferie, per rubare queste belle espressioni a Papa Francesco. Altrimenti la battaglia sarà perduta nel nostro campo, prima che a Roma o a Bruxelles.
Care amiche, cari amici,
è difronte a queste inesorabili sfide che avevo maturato il sogno di cui dicevo all’inizio: lavorare per una evoluzione della nostra forma partito, senza perdere nulla del nostro percorso, ma diventando noi soggetto attivo per infrastrutture politiche innovative, capaci non solo di gestire ciò che esiste, ma di interpretare il progetto culturale per la nuova Autonomia.
Pensavo che potessimo valorizzare riflessioni e esperienze che, pur nel periodo infausto che abbiamo alle spalle, ci hanno visto provare a costruire nuove vie.
Abbiamo avviato alcune esperienze di grande interesse: il Cantiere Civico Democratico che abbiamo promosso con successo a Trento e a Dro si muove in questa direzione. Ritengo tra l’altro molto grave che nella Tesi di Tiziano Mellarini stia scritto che questa esperienza deve essere cancellata. Tradire il patto con gli elettori e compromettere il rapporto con tante persone disponibili a questo nostro progetto, magari per dare sfogo a risentimenti di bottega o a regolamenti di conti, sarebbe contrario ad ogni senso etico e politico.
Se vogliamo guidare i processi e non subirli, serve invece chiarezza sulla nostra identità politica e sul profilo del nostro percorso.
L’UPT non può coltivare teorie di equidistanza incompatibili con la sua natura di forza politica di centro sinistra. Noi non siamo “occasionalmente” nella coalizione.
E non siamo di centro sinistra solamente perché alleati con il PD. Lo siamo perché questo è il nostro campo; lo è sempre stato. Lo era fin dai tempi dei nostri padri politici popolari e democristiani, che hanno sempre testimoniato una visione aperta, riformatrice, inquieta e non certo moderata o conservatrice del nostro Paese e del Trentino.
In un momento di emergenza del partito, chiamato appunto non a caso a congresso straordinario, avevo pensato che fosse dovere del “primus inter pares” tra i fondatori mettersi a disposizione.
Perché questo io sono stato e sono: non il capo di una fazione o di una corrente.
Ma il Gruppo Consiliare ha deciso di contrapporre una sua candidatura, presentata come tale e l’ha portata avanti in amorevole sodalizio con la segretaria uscente, che lo stesso
Gruppo aveva fatto eleggere a Vezzano, salvo poi prendere atto della situazione insostenibile venutasi a creare. Ma, si sa, le opportunità cambiano.
Il Gruppo Consiliare ha così di fatto trasformato il suo rapporto con il partito, diventandone irritualmente una parte in concorrenza con altra, quando invece ne dovrebbe costituire la rappresentanza unitaria nelle istituzioni.
Ciò è tanto più irragionevole, quanto più si consideri che gli amici assessori e consiglieri hanno sempre potuto godere della solidarietà e della vicinanza mia e di tutto il partito. Anche nei momenti difficili e contraddittori, quando la Giunta ( alla quale, iniziando dal Presidente Rossi, va tutta la mia amicizia e il mio leale sostegno di militante politico e di parlamentare ) demoliva purtroppo, in nome della discontinuità, alcuni pilastri essenziali del nostro comune progetto di governo.
Mi riferisco per esempio alla riforma istituzionale, uccisa – in nome di una sostanziale e pasticciata omologazione ai modelli nazionali – da una contro riforma che ha lasciato oggi sul campo Comunità di Valle prive di senso politico e di legittimazione comunitaria e ha gettato la rete dei municipi, fondamentali istituzioni di micro autonomia, in preda al mantra di fusioni, aggregazioni, unioni e congetture varie senza disegno e anche, temo, senza vero risparmio.
E tuttavia, mai abbiamo lasciato soli o delegittimato i nostri assessori e i nostri consiglieri, ben sapendo che sopratutto ad un ex Presidente si impone l’obbligo di una certa sobrietà nel giudizio sulle scelte dei governi che gli succedono.
Non c’era dunque alcun bisogno di occupare quasi militarmente il partito, di garantirsi una blindatura che dovrebbe invece lasciare il posto ad un sostegno critico ma leale all’azione di un governo non più guidato da uno di noi.
Ed era questo che avrei cercato di fare, per essere utile al Gruppo Consiliare, ai nostri assessori, al Presidente e alla coalizione.
Senza secondi fini, avendo già avuto tutto ciò che potevo avere dalla scena locale ed essendo perfino ridicole le leggende metropolitane che ho letto sui siti e sulla stampa in queste settimane, ad opera di chi evidentemente applica agli altri la propria visione che non prevede azioni prive di tattiche da ricerca di poltrone.
Le ragioni politiche di questa candidatura del Gruppo Consiliare dovrebbero essere chiarite nella Tesi depositata. Ed infatti, in essa si prefigura una idea di partito e di progetto politico nettamente diversa da quella sostenuta da me e, a mio modo di vedere, nettamente in distonia con il senso del nostro percorso dalla Margherita in poi.
Nel corso delle assemblee territoriali, abbiamo sentito una versione molto diversa, che forse non è stata gradita dai molti esponenti del mondo civico, di Progetto Trentino e del centro destra che avevano speso pubblicamente parole di attesa e di augurio nei confronti di Tiziano. Ne sono lieto, ma la Tesi non è cambiata.
Così come non è cambiata nel punto nel quale si afferma che l’UPT non potrà mai aderire, a livello nazionale, ad una lista “renziana”. Asserzione piuttosto curiosa, stante la legge
elettorale in vigore, che come noto non prevede coalizioni tra liste diverse, ma un premio di maggioranza alla lista più votata.
Ho letto – a questo proposito – che qualcuno ha posto la questione della mia Presidenza del movimento politico nazionale “Democrazia Solidale”, che si sta organizzando nel resto del Paese.
Mi stupisco che sia stata colta solo la presunta incompatibilità rispetto alla mia eventuale carica di segretario dell’UPT. Non mi risulta che vi sarebbero state ragioni di incompatibilità e se si fossero presentate, l’avrei risolte nell’unico modo possibile: rassegando le dimissioni da quell’incarico.
Penso invece che il tema avrebbe potuto suggerire altre riflessioni, che avrei comunque proposto io da eventuale segretario: Democrazia Solidale e’ una rete di persone e di movimenti anche territoriali di matrice cattolico democratico, che intende concorrere assieme al Partito Democratico e ad altri soggetti a costruire – in base all’Italicum – il Cantiere della nuova proposta da sottoporre agli elettori alle politiche del 2018.
Se noi fossimo meno distratti e meno inclini a deragliare verso lidi che non sono nostri, avvertiremmo la circostanza che in Trentino questo percorso sarebbe già maturo. E potremmo fare ancora una volta da apripista, confederandoci ad un soggetto nazionale con la nostra stessa matrice e nel contempo sperimentando subito da noi un nuovo assetto, più esigente, più strutturato e politicamente più solido del centro sinistra autonomista. Una coalizione che oggi, lo diciamo con enorme preoccupazione, non sembra godere di buona salute e poter contrare su solidi baricentri politici.
Se posso aggiungere, in tema di incompatibilità, esprimo stupore e incredulità a fronte delle dichiarazioni secondo le quali l’articolo del nostro Statuto che la dispone con chiarezza, senza se e senza ma, tra la carica di assessore e di segretario sarebbe un cavillo insignificante, superabile senza problemi.
Su questo punto si gioca molta della credibilità e del senso delle regole; esso costituisce un ostacolo invalicabile, a valle di una procedura congressuale, a meno di un atto di arroganza e di illegalità palese.
Del resto, amici consiglieri, caro Tiziano, non vi conviene neppure. L’ultimo esempio nostrano di partito degli assessori – modello che sembra così pericolosamente affine all’UPT in divenire – non mi pare che abbia dato risultati esaltanti sul piano politico e neppure su quello elettorale.
Care amiche e cari amici,
da quando ho depositato la mia candidatura, ho incontrato tante disponibilita’, per le quali ringrazio di cuore e che mi caricano di grande responsabilità, ma registro con amarezza che mancano oggi tutte le condizioni per dare un senso compiuto a quello che sta accadendo.
Due componenti su tre del comitato organizzatore nominato dal Parlamentino si sono dimessi, dichiarando di non essere stati posti in grado di verificare la procedura delle
adesioni – circa il numero delle quali sembra esserci incertezza a tutt’oggi – e sollevando dubbi e perplessità non indifferenti, che il curioso e tardivo comunicato dei garanti non ha certo chiarito.
Sarebbero già, questi, motivi più che validi per far ritenere che il campo di gioco sia invaso dall’acqua, dunque impraticabile e – oltretutto – non presidiato da un arbitro imparziale.
Ma, oltre al campo diventato impraticabile, anche il gioco stesso ha perso il suo senso e la sua plausibilità.
Una Tesi che afferma il contrario di ciò che il candidato dichiara, così che nessuno saprà mai a quale linea politica egli si sentirà vincolato.
Una contesa attorno alla leadership proposta non dal portabandiera di una nuova giovane generazione, ma dal Gruppo dei Colonnelli che hanno condiviso fino a ieri con il Generale ( e per questo li ringrazio di cuore ) un percorso quasi ventennale.
Un rischio evidente che il partito, anziché evolvere e concorrere a costruire nuove infrastrutture, si frantumi nella nebbia, perda la bussola del suo cammino e finisca preda di opa altrui, ostili o amichevoli che siano.
Non era questo lo scenario presente nel sogno di cui parlavo all’inizio e che ho condiviso con molti in questi due mesi.
Ho proposto a Tiziano Mellarini, lunedì scorso, di provare in extremis a riportare la barca su una rotta almeno più sicura. Gli strumenti statutari ci sarebbero stati. La volontà politica no. Ne prendo atto. Così come prendo atto delle mancate garanzie sulle regole denunciate da Mauro Betta e Alessia Gabrielli.
Care amiche e cari amici,
io ci ho provato. Noi ci abbiamo provato, con sincerità e – mi si perdoni – anche con generosità. Ora fate come credete.
Non sono tipo; non siamo tipi da andar per avvocati per queste vicende.
Amiamo questo partito ma amiamo anche la politica e la nostra libera responsabilità. O la nostra responsabile libertà, che dir si voglia.
Ci hanno insegnato che il partito struttura e’ tutto nella concezione leninista, ma è solo una parte – e neppure la più importante – nella concezione sturziana.
Quello che avremmo voluto fare, assieme, interpretando una nuova fase del partito, lo faremo comunque, nella convinzione che, alla lunga, la politica, la buona politica, vince sempre. Anche quando nell’immediato a vincere e’ altro.
Per queste ragioni, ringraziando nuovamente tutti, prego la Presidenza del Congresso e tutti gli iscritti che avrebbero inteso votare per me – pochi o tanti che siano – di considerare ritirata la mia candidatura e comunico che non partecipero’ alle votazioni previste dalla convocazione.
Grazie.
TRENTO, 3 gennaio 2016