Intervista al Corriere del Trentino del 20 ottobre 2015

La boa è ormai la stessa da anni. Restituire alla politica un ruolo e una capacità di rappresentanza attraverso la paziente costruzione di un nuovo modello. Una boa che, come un sortilegio, induce il vascello a ruotare su di sé. Un sortilegio che ha allungato la sua influenza sull’autonomia speciale, la terra dell’autogoverno. «A livello nazionale un elettore su due non vota più. Non è arrabbiato, pensa semplicemente che la politica non sia più utile e trova altri canali di soddisfazione delle proprie esigenze. In Trentino accade un fatto simile e temo che possa essere disinteresse verso l’autonomia speciale». Da Roma a Trento, il passo può essere lungo o breve a seconda delle angolazioni. Lorenzo Dellai prova a leggerle e a esorcizzarle a partire dal quadro nazionale («Occorre aprire una seconda fase dopo quella delle leadership onnicomprensive. Per usare una suggestione di papa Francesco, il centrosinistra deve ripartire dalle periferie») passando per la questione del terzo statuto di autonomia. «Entro il 2018 anticiperei una parte della riforma definendo le competenze delle Province di Trento e Bolzano, poi non avremo più peso politico» riflette a bassa voce l’ex presidente della Provincia e capogruppo alla Camera di Per l’Italia-Centro democratico.  
In tutti i livelli istituzionali il potere dell’esecutivo sembra la panacea di un universo politico e sociale altrimenti impossibile da tenere insieme. Che giudizio dà dell’epoca Renzi? 
«La sensazione è che siamo immersi ancora in una lunghissima transizione. È dall’omicidio di Aldo Moro che il sistema italiano cerca di riformarsi, di stabilizzarsi senza riuscirci. Nel frattempo la società e il suo rapporto con la politica sono cambiati. Si è modificato il criterio di soddisfacimento: da una società strutturata che poneva domande collettive siamo passati a una società parcellizzata che pone domande individualizzate. La politica cerca di dare risposte come può. Oggi siamo nella stagione della verticalizzazione e del primato assoluto delle leadership che svolgono una supplenza rispetto allo sgretolamento delle culture e delle presenze politiche tradizionali. Matteo Renzi è frutto di questa stagione, interpreta queste dinamiche e cerca di dare soluzioni che vanno nella direzione del cambiamento, del dinamismo, dell’assunzione personale di responsabilità. Per tale ragione, il mio giudizio è costruttivo perché c’era bisogno di modificare un sistema inceppato. Tuttavia, non si può non avvertire la necessità di una seconda fase, più matura, che affianchi alle leadership un progetto politico. Ciò comporta la riorganizzazione del sistema politico e partitico che oggi è parcellizzato». 
Cosa dovrebbe caratterizzare la seconda fase? 
«Dovrebbe essere una fase più popolare, cioè capace di coinvolgere il popolo nella sua dimensione collettiva, e meno verticistica. Ciò implica riflettere sulle strutture politiche, discutere sulla forma partito e stimolare un dibattito vasto sulla questione della rappresentanza politica. La sua crisi, in larga parte, ha origine nella trasformazione della società a cui occorre offrire nuove traiettorie organizzative e partecipative. In Italia un simile processo non è stato ancora avviato». 
Qual è il baricentro dell’ennesimo tentativo? 
«Vorrei prendere a prestito una suggestione di papa Francesco. Ossia l’idea di ripartire dalle periferie. Periferie geografiche, esistenziali, umane, culturali, demografiche, sociali. È il filo conduttore che può ricostruire un’identità non vecchia e non nostalgica del centrosinistra sia in Italia che in Europa. La nostra società è un insieme di periferie, rappresentarle è una grande scommessa politica e culturale». 
Le periferie sono anche quelle sottorappresentate politicamente: giovani, strati sociali deboli, ceto medio in crisi? 
«Certamente, la politica ha problemi di connessione piuttosto ampi. Uno dei nodi rispetto al passato è l’assenza di una stratificazione sociale definita in base alla quale ci sono interessi collettivi organizzati che la politica assume o media. Oggi è tutto sfumato, frammentato. Il 50% degli elettori diserta le urne non perché è arrabbiato, ma perché non riconosce alla politica una qualche utilità. Ritiene che ci siano altri strumenti e altre dimensioni di soddisfazione dei propri bisogni che sono individuali».  
Non mancano tentazioni di leadership trasversali — giustificate dal superamento delle ideologie — in grado cioè di conciliare posizioni politiche fino ad oggi distanti.  
«Hanno sempre origine dalla crisi di rappresentanza della società. Renzi ha ragione nel sostenere che una certa idea del centrosinistra è un po’ fossilizzata. Però è anche vero che la politica non può essere un tutto indistinto, un rassemblement che va dalla sinistra dem a Denis Verdini. È un’immagine che non aiuta a ricostruire credibilità». 
L’Italicum potrebbe, però, sospingere la dimensione della leadership e del partito unico (Partito della nazione) con il premio di maggioranza al 40%.  
«Ho votato con grande perplessità l’Italicum. Tuttavia, la legge elettorale è uno strumento che va interpretato politicamente. Una modalità può essere la vecchia architettura dei partiti. Quindi alle elezioni ognuno si presenta con la sua lista, dal Pd in giù. L’Italicum presuppone, invece, una ristrutturazione dell’architettura della rappresentanza politica. Dunque, la lista deve essere una nuova infrastruttura politica che si carica sia del senso dell’unità, perché si candida a governare, che del senso della pluralità delle proprie culture. È una riedizione aggiornata del principio coalizionale. E anzi si gioca su un patto ancora più forte: fare una lista insieme, proporre un progetto di governo, condividere una leadership, rappresentare non solo le nomenclature politiche ma anche esperienze di comunità. Allora l’Italicum diventa una legge utile e non furba. Ma se l’interpretazione è la prima, si arriverebbe ad un ballottaggio di difficilissima prevedibilità».  
Lei immagina un’evoluzione del Partito democratico o un assorbimento? 
«Penso che il Pd dovrebbe aprire una fase costituente con le altre esperienze partitiche e non partitiche per comporre la lista. Quello che accadrà poi è tutto da scrivere. Per sgombrare il campo da equivoci: non sono interessato ad aderire al Pd di oggi ma, come cattolico democratico di centrosinistra, a costruire scenari che possano essere di evoluzione rispetto al presente. Oggi non ci sono le condizioni, tuttavia la formazione della lista, se resta l’Italicum, può essere un’anticipazione dei processi politici futuri. La politica senza cultura politica è solo pragmatismo». 
Renzi cosa farà? 
«Deve riflettere rapidamente, cosa che credo stia facendo. La sola gamba del governo, senza quella dell’elaborazione politica, rischia di ridurre la durata del suo ciclo». 
Qual è la forma dei partiti del futuro? 
«Una volta c’erano una base ideologica, una quota di iscritti e una di elettori sostanzialmente stabile. Questi elementi non ci sono più. Dobbiamo superare la contraddizione del partito liquido, si è rivelato inconsistente nei fatti, e muoverci verso un’idea di rassemblement che unisca più esperienze organizzate (partitiche, di associazioni, di realtà territoriali) collegate ad un programma, a una visione e con una sua vita interna. Non possono essere solo comitati elettorali». 
Come valuta la riforma costituzionale appena approvata al Senato? 
«Il segno della riforma è legato al tempo della verticalizzazione e della brutale semplificazione dei processi politici. Non se l’è inventato Renzi, però. Corrisponde ad una spinta forte proveniente dall’opinione pubblica e dai sistemi che convivono nel Paese. C’è un’ostilità marcata verso ogni forma di complessità a cui si sono aggiunti come stimoli la crisi dei partiti, il fallimento del regionalismo in Italia, la confusione dopo la riforma del Titolo V con proclami federalisti mai seguiti da un riassetto dello Stato centrale. Poi c’è anche il legittimo superamento del bicameralismo perfetto anche se personalmente avrei preferito un modello Bundesrat». 
L’autonomia è stata ancora una volta messa al riparo. 
«L’approvazione di una norma di salvaguardia dello statuto prima alla Camera e poi al Senato è stato un piccolo miracolo in controtendenza, peraltro, rispetto al disegno centralista della riforma. Un obiettivo che abbiamo raggiunto anche grazie alla vigile attenzione del presidente Napolitano. Il piccolo miracolo non ci mette, tuttavia, al riparo per sempre. La vera partita sarà affidata alla revisione dello statuto che, ricordiamolo, dovrà avvenire previo confronto con il governo e il parlamento. La strada non sarà affatto in discesa». 
L’iter di conduzione al terzo statuto vedrà una prima fase di lavori separati per Trento e Bolzano che solo in una seconda fase cercheranno una sintesi. Lo giudica un errore? 
«Sarebbe stato preferibile un ragionamento più coordinato fin dall’inizio. Al di là di questo, penso ci siano delle riflessioni da fare a monte, a mo’ di premessa. Mi riferisco al fatto che i mutamenti epocali nei quali siamo inseriti mettono in discussioni alcuni pilastri sui quali, con gli statuti del 1948 e del 1972, si è fondata l’autonomia. Sono quattro. Innanzitutto, quello geopolitico. La nostra specialità ruota intorno al Brennero, porta di accesso all’Austria, cuore dell’Europa si è sempre detto. Ma oggi il Brennero non è più centrale perché non lo è più l’Europa a differenza del Mediterraneo. Il secondo pilastro era la convivenza di etnie e lingue diverse. Un unicum all’epoca mentre nel presente è l’Europa ad essere un insieme di minoranze. Le migrazioni stanno trasformando l’intero continente. Il terzo pilastro era il territorio e il suo autogoverno, ma siamo nel tempo dei flussi che passano sopra i luoghi e li trasfigurano. Infine, l’ultimo pilastro era quello sociale. L’autonomia dava corpo giuridico ad una società fortemente organizzata intorno al primato dei diritti collettivi (microautonomie, corpi intermedi, eccetera). Il modello contemporaneo è totalmente diverso e osserva nel suo fulcro i diritti individuali». 
Un oggettivo indebolimento delle ragioni autonomistiche. 
«Se non vogliamo seguire la strada della banalizzazione, cioé della mera difesa delle prerogative finanziarie, dobbiamo rielaborare concettualmente questi pilastri investendo sulla centralità delle «terre alte» come luogo di sperimentazione, immaginando un prototipo di società plurale avanzata, integrando aspetti globali e locali fino in fondo (dalla ricerca alla mobilità), elaborando nuove idee per la qualità della democrazia locale. Sarebbe, a tal scopo, opportuno mobilitare le migliori energie della società trentina — dai partiti al mondo intellettuale alla società civile — per un grande progetto politico-culturale». 
Intanto l’astensionismo in Trentino ha uguagliato la dinamica nazionale. Non è un ulteriore elemento di debolezza?  
«Mi inquieta molto perché significa che una parte consistente di cittadinanza reputa inutile l’autonomia speciale. L’opinione pubblica deve essere esigente, ma anche responsabile. È necessario riflettere sulla qualità dei nostri percorsi partecipativi: senza il popolo l’autonomia si riduce ad un apparato». 
Quale sarà la tempistica del terzo statuto? 
«Io suggerisco di fare in fretta, o almeno di approvare una prima modifica dello statuto che consacri la deroga rispetto alle nuove previsioni costituzionali e che riqualifichi tutte le nostre competenze elevando le concorrenti a esclusive. Se ciò non fosse possibile, l’obiettivo minimo è confermare le attuali e introdurre il principio che le norme di attuazione sono lo strumento per regolare i rapporti tra Province autonome e Stato sulle competenze trasversali, come i Livelli essenziali di assistenza, la disciplina della concorrenza, il coordinamento della finanza pubblica e così via. Nel parlamento attuale abbiamo ancora un peso politico e credo che la legislatura andrà al suo termine naturale, nel prossimo non avremo un’analoga forza. In un secondo tempo, se non riusciremo a condurre in porto una revisione unitaria, ci dedicheremo ai temi più generali: governance, Regione, ripartizione del potere». 
Intanto si avvicina il congresso dell’Unione per il Trentino che è divisa sulle prospettive. 
«Vale quanto detto sopra. C’è l’esigenza di nuove infrastrutture politiche, di un nuovo disegno. Ho creduto potesse essere un’evoluzione della coalizione, ma il Patt ha preferito una strategia competitiva e block frei. Upt e Pd non devono, a mio avviso, rinunciare ad una riflessione di larga scala insieme alla società trentina. Se l’Upt riesce ad alzare l’asticella allora può dimostrare la sua utilità, altrimenti è destinata all’insignificanza. Non essendo partito di potere possiamo permetterci di ragionare in modo più alto. Di sicuro un congresso fondato sulla memoria del nostro partito o di contrapposizione classica sarebbe deleterio». 
Un’ultima questione: la Provincia sotto la guida di Ugo Rossi ha revisionato diverse scelte del governo precedente. Come lo vive? 
«Il presidente Rossi dice sempre di essere più bravo di me, dunque non ho dubbi che abbia ragione. Scherzi a parte, osservo con rispetto perché il mio ciclo in Provincia si è compiuto. Di alcune revisioni, come quella istituzionale, non ho ancora compreso gli obiettivi. Noi perseguivamo un riequilibrio dei poteri con le valli che dovevano essere protagoniste di un’amministrazione alta. I municipi di ridotte dimensioni restavano come presidi di democrazia per contrastare la verticalizzazione del potere. Ora si è ricentralizzato il processo. Anche sulla conoscenza ho qualche perplessità, diamo tempo al tempo».